Era stato colpito da emorragia cerebrale otto anni fa l’allora primo ministro Ariel Sharon; finito in coma, in stato vegetativo, non aveva mai ripreso conoscenza. Adesso i media sono invasi dall’immagine dolce del nonno grande statista, che sembra occultare il vero passato di un leader arrivato a compiere azioni criminali. È necessario ricordare parte della sua storia, anche per capire un po’ meglio una società israeliana sommersa e impantanata in un’enorme onda razzista, nazionalista, fondamentalista.

Negli anni ’50 del secolo scorso il capitano Sharon era un aspro combattente che partecipava ad atti di provocazione, con l’obiettivo di far deflagrare la situazione alla frontiera giordana. Nel 1953, in una delle famose «azioni di rappresaglia» di quel periodo, un’unità comandata da Sharon assassinò sessanta abitanti del villaggio di Quibia, in Giordania.

In non poche occasioni, la lunga carriera militare di Sharon si inscrive nella brutalità e nell’escalation di un conflitto fattosi ancor più sanguinoso con la guerra del 1967. Sharon, al tempo già generale, comandante della zona sud, dà avvio a una brutale repressione a Gaza negli anni ’70, in seguito diventa il discusso eroe della guerra del 1973 e poco dopo inizia una turbolenta carriera politica. Con curiosi andirivieni, a poco a poco arriva a essere uno dei leader del Likud. Quando giunge al potere Menachem Begin, Sharon inizia una carriera che lascerà nella storia segni indelebili, ancora più degli attacchi criminali compiuti quando comandava la famigerata unità 101, o della repressione dei palestinesi a Gaza.

Soffermiamoci brevemente su quattro drammatiche decisioni politiche di Sharon, indispensabili per capire da un lato la stessa realtà odierna di Israele e la possibilità o meno di un trattato di pace, dall’altro la pericolosa carriera di un leader che nei suoi ultimi anni di vita politica era stato ritenuto – a torto – un possibile De Gaulle, che avrebbe fatto ritirare Israele dai Territori occupati.
Sharon era ministro dell’agricoltura nei giorni di Camp David, quando con la mediazione statunitense si discuteva di una possibile pace israelo-egiziana. E all’epoca fu uno dei principali architetti del progetto di colonizzazione dei territori occupati, con molte iniziative e fiumi di denaro. Sharon pensava che la pace con l’Egitto avrebbe permesso di inaugurare una serie di trattative che potevano arrivare alla discussione sul destino della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, e riteneva che nuovi insediamenti e un arrivo massiccio di coloni fossero la ricetta migliore per rendere impossibile la pace.

L’allora ministro della difesa Ezr Weitzman, un noto falco diventato ardente colomba durante le trattative di pace con l’Egitto, volle cambiare la posizione del primo ministro Begin rispetto a possibili trattative di pace con i palestinesi e dopo aspre discussioni con il premier rinunciò alla carica, una delle più importanti nella gerarchia politica israeliana.
Così Sharon, da sempre frustrato per non essere arrivato al grado di comandante generale dell’esercito, poté realizzare il suo sogno, comandando l’esercito come ministro della difesa. Poco tempo dopo il suo arrivo a questa carica chiave, diede inizio ai preparativi per la guerra del Libano.

È tuttora ignoto l’autore del tentativo di assassinio dell’ambasciatore israeliano a Londra Shlomo Argov, che fu gravemente ferito; l’evento rappresentò comunque la scusa ufficiale che serviva per avviare la guerra del Libano, il 5 giugno 1982. «Come sempre», avrebbe dovuto essere una guerra lampo, di pochi giorni. Per alcuni era la guerra necessaria per distruggere l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), liquidare Arafat e affossare i negoziati sul futuro della Cisgiordania. Per Sharon e altri era molto di più: si trattava anche di intronizzare a Beirut la famiglia Gemayel, alla testa delle Falangi cristiane del Libano; in casi specifici le falangi si erano alleate ai siriani, e avevano liquidato palestinesi, come nel caso del massacro del campo di Tel Al Zaatar, ma esse diventarono alleate di Israele ed esecutrici dei suoi ordini, arrivando a essere un baluardo anti-siriano.

Il giovane Bashir Gemayel, presidente eletto con la protezione delle armi israeliane, salta in aria poco dopo, forse assassinato dai siriani. La grande vendetta arriva pochi giorni dopo: le falangi cristiane entrano nel campo di rifugiati palestinesi a Sabra e Shatila con l’avallo delle forze israeliane – «non sapevamo – non abbiamo visto – non immaginavamo – non abbiamo sentito». La mattanza commuove il mondo e la commozione arriva anche in Israele.

Le proteste nel paese obbligano alla fine il governo a formare una commissione d’inchiesta, la quale fra l’altro arriva a concludere che Sharon deve lasciare la carica di ministro della Difesa. La guerra «di pochi giorni» durerà oltre 18 anni; la ritirata delle forze israeliane sarà decisa solo nel maggio 2000, dal primo ministro Ehud Barak. Sharon continua a fare il ministro, dapprima senza portafoglio, poi incaricato degli alloggi, una carica che gli permette di tornare a essere il grande architetto della colonizzazione dei territori occupati.
Nel settembre del 2000, Sharon fa una mossa che il primo ministro Barak avrebbe potuto impedire: va alla moschea di Al Aqsa. La sua visita scatena la seconda intifada, che ha termine anni dopo, quando Sharon è già primo ministro. Non entriamo qui nel merito della posizione di Barak, che allora era appena tornato dal fallimento dei negoziati con Yasser Arafat e Bill Clinton a Camp David. L’intifada, la brutale escalation repressiva, il susseguirsi di attacchi palestinesi: è in questo scenario che la carriera politica di Sharon arriva al culmine, quando tutti pensano che il grande generale sia politicamente morto. In effetti Sharon ha ereditato il partito dello sconfitto Netanyahu e dopo i tre tristi anni di governo di quest’ultimo, Barak sembra portatore delle grandi speranze di rinnovamento. Ma in poco tempo monumentali errori portano quest’ultimo a una grande sconfitta, e così il «morto politico» Sharon diventa improvvisamente primo ministro.

Il fatidico 11 settembre 2001 apre un nuovo capitolo di storia. George W. Bush, che tutti consideravano un fallimento totale, diventa leader mondiale grazie alle sue criminali guerre in Afghanistan e Iraq. Il rancherostatunitense Bush trova un linguaggio comune con il ranchero israeliano Sharon. Le pressioni di alcuni paesi arabi portano Bush e Sharon a ripensare alcuni elementi nel quadro mediorientale: si fanno piccole aperture per scongiurare l’acuirsi del conflitto, e per evitare grandi cambiamenti reali.
Il ritiro dalla Striscia di Gaza nell’agosto 2005 sarebbe il «grande passo» di Sharon, il «pacifista», agli occhi di molti osservatori disattenti della politica mediorientale, e di politici europei al traino di Bush e del sorridente Tony Blair. I nostri lettori possono ritrovare sulle pagine del manifesto di allora le ragioni della nostra opposizione a questo ritiro, che molti stupidi considerarono un vero cambiamento.

Un ritiro dai territori occupati ha sempre elementi positivi, ma nel 2005 la mossa politica era chiara; il ritiro da Gaza, con tutta la sceneggiata, con un’enorme copertura mediatica da parte di stampa e tivù del mondo intero, con l’apparenza di un passo verso la pace fu in realtà un’iniziativa unilaterale grazie alla quale il governo israeliano posticipava di molti anni qualunque negoziato sulla Cisgiordania.

La colonizzazione galoppante di quest’ultima, in effetti, diventa da allora sempre più grave e massiccia, ma al tempo stesso l’immagine di Israele e del nostro grande leader migliora. Sharon non cerca nemmeno di parlare o negoziare con Abu Mazen; l’immagine di un possibile campo palestinese moderato ne esce indebolita e già agli inizi del 2006 il trionfo di Hamas è l’ideale per il rafforzamento della politica del grande generale.

La mossa di Sharon aveva funzionato; altri scontri avevano acuito l’odio fra i due popoli e il cosiddetto processo di pace era caduto in disgrazia, agonizzante o dormiente, quando l’improbabile De Gaulle entrò, nel 2006, in uno stato di coma. In questi anni, la retorica pacifista israeliana non ha affatto rimesso in moto il processo di pace, e altri coloni hanno occupato territori.
Sharon che era stato uno dei principali leader della protesta contro gli accordi di Oslo firmati nel 1993 da Isaac Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat; Sharon che era stato in prima fila nelle manovre per far fallire il processo di Oslo dopo l’assassinio di Rabin, muore vent’anni dopo, mentre la pace si fa sempre più lontana. Sharon, considerato da molti un artefice del cambiamento, è stato in realtà uno dei principali ideatori della colonizzazione dei territori occupati nel ’67; e il grande affossatore di ogni possibile processo di pace.

(Traduzione di Marinella Correggia)