Difficile dar torto a Rino Genovese: non da oggi, l’inguaribile «sindrome italiana» si materializza, per il Belpaese, nell’ormai cronica acquisizione forzosa di un’«identità senza volto, irriconoscibile, quella di un serpente sempre pronto a mutare pelle, che diventa qualcuno solo nel breve momento di questo suo mutare, e prima e dopo non è più nessuno». E allora, proprio perché l’Italia invariabilmente si rivela il medesimo teatrino dell’assurdo – ingannevoli retoriche di rinnovamento che si candidano, perlopiù con successo, a celare, ovviamente introiettandola, un’endemica convivenza di vuoti identitari a propria volta inderogabilmente camuffati da pieni culturali – il filosofo napoletano ha potuto raccogliere in un unico volume fresco di stampa, L’altro Occidente. Dall’Avana a Buenos Aires (manifestolibri, pp. 239, euro 23), due suoi lavori di circa vent’anni fa con la legittima ambizione di regalarci non tanto una mera genealogia, quanto un’addolorata istantanea del nostro angoscioso presente.

L’impasse dei Lumi

Cuba, falso diario, apparso da Bollati Boringhieri nel 1993, e Tango italiano, intenzionalmente falsificato, più che fasullo, diario di un viaggio in Argentina pubblicato dallo stesso editore quattro anni più tardi, si proponevano infatti come sinceri, benché inautentici, autoritratti intellettuali certamente preoccupati di sondare – impiegando categorie critiche ereditate dalla Scuola di Francoforte, nonché a ridosso della fine del socialismo reale in salsa sovietica – sopravvivenze e fallimenti del progetto civile tracciato dalla modernità. Soprattutto, quei testi strutturalmente ibridi, cioè scaturiti dal felice abbraccio tra ricognizione teorica e moduli narrativi, ambivano però, entro siffatta cornice storica e sociale, a studiare in tralice, provando a ripensarlo da lontano, un «caso italiano» capace, forse non proprio all’improvviso, di mutarsi in cartina di tornasole di una complessiva crisi dell’Occidente già segnata dalla tendenziale legittimazione pubblica di una impasse dei Lumi supposta inevitabile. In altri termini, l’Italia appariva due decenni fa a Genovese ciò che oggi a maggior ragione gli sembra: lo specchio deformato, e quindi l’immagine iper-realistica, di un tuttavia non fisiologico declino occidentale. Di qui sia l’attualità di Cuba, falso diario e di Tango italiano, sia il desiderio dell’autore di tornare a offrirli al pubblico perché i lettori possano riconsiderare la niente affatto implicita proposta utopica in essi contenuta.

Va forse precisato che non necessariamente i due scritti ci guadagnano ad essere classificati, come fa il loro autore in una pur essenziale Prefazione a L’altro Occidente, «tra i primi esempi italiani di ciò che oggi si è soliti chiamare autofinzione». In quest’ultima prevale infatti scopertamente un’intenzione narrativa che, da un lato, aspira a tradurre in romanzo-saggio tutto sommato modernisticamente canonico qualsivoglia «autobiografia di fatti non accaduti, o parzialmente accaduti», si desideri costruire e, dall’altro lato, mira, in maniera spesso proficuamente ambigua, a convertire le usuali convenzioni espressive della saggistica in pure strategie di fiction. In Genovese la scelta pare di segno esattamente opposto: servirsi di talune soluzioni fatte in genere proprie dalla narrativa per potenziare, e al contempo rendere più accattivante, l’interna retorica di «piccoli saggi storico-politici» che mai accetterebbero di essere anzitutto fruiti, e al limite esclusivamente accostati, alla stregua di autonome invenzioni letterarie, invece di essere in prima battuta percepiti, e magari unicamente interpretati, quali ipotesi di verità da discutere in sede critica.

Un gattopordismo sempiterno

L’alter-ego di Genovese, di cui seguiamo il peregrinare sia in Cuba, falso diario sia in Tango italiano, ricava le sue proposte interpretative, oltre che da una spietata analisi della propria identità intellettuale, dall’accorta valutazione di quanto appreso da individui che i testi presentano talvolta quali interlocutori effettivi e, in altri casi, come immaginarie riapparizioni di reali personaggi storici prodotte dall’artificio letterario e dall’inclinazione onirica prediletta dall’autore. Perché non ritenere allora entrambe le opere anzitutto sofisticate riscritture, o persino rivitalizzanti rinnegamenti, della nobile tradizione del dialogo filosofico? Possibile classificazione che, semmai, si fatica a indicare con pari naturalezza per Ci sono le fate a Stoccolma, il volume «svedese», edito nel 2008 da Diabasis, con cui Genovese ha idealmente chiuso una sua personale trilogia sull’Occidente e sull’Italia affidata, dal punto di vista formale, a un’ibridazione dei generi letterari e delle pratiche discorsive che ruota però intorno alla preliminare riformulazione del cosiddetto libro di viaggio.

Ma qual è, in conclusione, il ritratto dell’Italia di sempre, dunque anche di oggi, che L’altro Occidente ci consegna? Quello di un Paese fedele al «movimento immobile del gattopardismo sempiterno», perciò incline ad affidarsi a suadenti caudillos armati o disarmati; come pure un Paese indifferente, per cultura sua propria, tanto alla verità quanto alla legge, quindi cinicamente pronto a venerare ogni opportunista di successo; in ultimo, un Paese che vive un «intreccio di diversi tempi storici con noncuranza» e il cui «enigma» può allora essere inteso impiegando il concetto gramsciano di «rivoluzione passiva». Diagnosi, questa appena riassunta, che da oltre vent’anni il non ancora estinto berlusconismo conferma in pieno, rivelandosi una forma di cesarismo su base plebiscitaria ed extralegale la cui spettacolarizzata ideologia populistica altro non veicola che un estremistico conservatorismo dalla patina modernizzatrice ma, al fondo, puramente lobbistico. E la resistibile ascesa di Renzi, sul fronte in verità mai opposto del Partito Democratico, rischia di dover essere letta esclusivamente come una sorta di definitiva legalizzazione sia culturale sia parlamentare – pur condotta su base giovanilisticamente ricattatoria, e dunque teppistica – di tale connubio tra culto mediatizzato della personalità, ultraliberismo retoricamente caritatevole e reciproca disponibilità dell’impolitico tele-imbonitore carismatico e del suo facile pubblico di spettatori-elettori a rispecchiarsi sempre l’uno nell’altro. Tutto ciò mentre, a completare il quadro dell’offerta politica nostrana, si è aggiunto, all’ormai cronico populismo visceralmente neotribale propugnato dalla Lega, quello in postmoderna salsa Matrix, e però classicamente intriso di qualunquismo e null’altro che «sfascista», espresso dal Movimento 5 Stelle.

Rovine novecentesche

Per un verso, Genovese non ha dubbi: da siffatte rovine post-novecentesche non solo italiane si può ancora, e anzi si dovrebbe con una qualche urgenza, almeno fantasticare una via di fuga riproponendo donchisciottescamente non già il ricordo del socialismo reale o realizzato e inteso «come scienza», bensì «l’immagine di un socialismo possibile», cioè qualcosa, più che «d’irreale», di congenitamente utopistico e di mai dogmaticamente definibile. Per altro verso, il filosofo è però costretto ad ammettere che, in Italia e forse nell’Occidente intero, non sembra più darsi un «contesto» intellettuale e civile seriamente disposto a prendere in considerazione e, nel caso, avallare una simile prospettiva anzitutto culturale.

L’innocente «solitudine di autore», alla quale un Genovese provocatoriamente démodé si ritiene condannato, somiglia perciò molto alla nostra, sovente colpevole, di cittadini in troppi casi nichilisticamente proni all’odierna legittimazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali. Le medesime disuguaglianze, le identiche ingiustizie, che non le analisi di un pericoloso intellettuale neomarxista, bensì uno studio finanziato dal Goddard Space Flight Center della Nasa ha appena indicato quali cause del probabile, e forse neanche troppo lontano, collasso della civiltà occidentale.