Alcune settimane fa si sono ritrovati a parlare del loro fare-cinema nella sala del Filmstudio di Roma, che è stato il punto di riferimento per quell’underground italiano esploso intorno al ’68 liberando l’immaginario come una barricata irriverente e meravigliosa. Loro sono Pia Epremian e Tonino De Bernardi, amici sin da ragazzini, cresciuti insieme a Chivasso, nella campagna fuori Torino, condividendo i viaggi in treno per andare a scuola, e soprattutto questo sogno del cinema. «Eravamo molto innamorati della cultura forse perché siamo cresciuti in provincia. Facevamo l’autostop per andare a vedere Brecht messo in scena da Strehler a Torino, e poi sedevamo nelle ultime file, le più economiche».

Questi «provinciali» però hanno rivoluzionato gli sguardi italiani pigri liberando teste e cuori degli spettatori e degli artisti dall’ abitudine di osservare e raccontare il mondo a una sola dimensione. Lo abbiamo perso purtroppo il nostro underground magnifico, messo da parte dai libri paludati e dai luoghi di «cultura» istituzionali, e per questo il nostro cinema è ancora così mediamente monocromatico. L’occasione per scoprire i film di Pia Epremian – e con lei quelli di Paolo Gioli, Alberto Grifi, Julio Bressane, Andrea Tonacci arriva da un eccezionale Fuori orario (oggi e domani Rai3, vedi scheda).

In una mail, raccontandomi di Pia, Tonino de Bernardi scrive: «Il mio cinema è nato insieme a quello di Pia, lei è stata quella con cui ho condiviso il mio primo underground, Taylor Mead arrivato a Torino da New York per proiettare il film di Ron Rice, era diventato nostro grande amico e diceva che Torino era come New York e lui era impazzito per Pia … Era stata incaricata di presentarlo; lui parlava e lei traduceva ma si sbagliava anche, lui aveva detto ’Avantgard’ e lei aveva capito ’Ava Gardner’…».

Pia Epremian oggi vive a Roma, ha un voce da ragazzina – «ma ho settantaquattro anni» ci tiene a dire all’inizio della nostra conversazione. Il cinema lo ha lasciato molto tempo fa scegliendo la strada della psicanalisi e della scrittura – La difficile identità, Boria, 2008.

«Mia mamma era ostetrica, in casa era pieno di donne partorienti che sbucciavano i fagioli. Andava a casa delle donne in bicicletta, ha fatto nascere anche il fratello di Tonino, allora era incinta di me che sono nata un mese dopo». 1940, una bambina della guerra Pia Epremian. Che da ragazza studia francese e si laurea su Proust. Il suo primo film comincia da qui, Lo chiama Proussade (J’ai noyé les mots dans mon ventre), siamo nel 1967. «Ho lavorato molto tempo sulla mia tesi, sono stata nei luoghi di Proust e quel film nasceva dal desiderio di liberarmi di lui. É un film sulla sua violenza covata nel tempo, se ci pensi Proust ha pubblicato i suoi libri solo dopo la morte della madre, non voleva che sapesse che lui era omosessuale. Mi ero immersa nel suo universo, lo sentivo molto vicino ai miei interessi psicologici». Prima Pia era entrata nel Mostro verde, il capolavoro di De Bernardi underground dove interpretava Eva. Racconta: «Recitavo nuda» e ride. E questa dimensione «amicale» complice è forse una delle forze più belle dell’underground, laddove resiste e si sovrimpressiona sulla pellicola. «Nei film recitavano gli amici, io gli dicevo cosa dovevano fare, come muoversi, spesso c’ero anche io».

Il film della sua vita però, lo dice lei, è Medea, la storia di una donna con una bimba malata in cui entra l’esperienza vissuta – la figlia Adele scomparsa anni fa, che disegnava meravigliosamente. «Quando un bambino nasce malato i genitori si sentono molto colpevoli. Ci si vede come delle mamme cattive … Medea è interpretata da più donne di età diverse perché volevo sottolineare come tutte le donne hanno un destino segnato».

E la poetica di Pia è fatta soprattutto del femminile, lei unica donna nell’undeground – ma il cinema è ancora oggi un po’ maschile – che come ricorda in un’intervista (Off&Pop, a cura di Bruno De Marino e Anna Maria Licciardello) gli uomini la criticavano, la prendevano in giro perché non sapeva usare il mezzo tecnico, l’8 millimetri, il super8, il 16 millimetri. E lei invece amava le sue riprese sfocate: «Le difficoltà con l’apparato tecnico che è così importante per gli uomini hanno sicuramente tenuto fuori le donne».

Anche Infiniti sufficienti parla di donne. «Sono le mamme che vedevo ai giardini pubblici dove portavo mia figlia. Erano molto sole, fissavano il vuoto. È un film sull’immutabilità della madre che rappresenta tutto. Una psicanalista inglese dice che oggi non c’è più l’invidia del pene ma quella della madre». Infiniti sufficienti sarà anche il suo ultimo film, dopo Pia Epremian si è dedicata alla figlia e, appunto, alla psicanalisi – nella programmazione di Fuori orario ci sarà anche Doppio suicidio, un «film breve sulla morte».

Torniamo un po’ indietro, agli inizi, a quando faceva film a Torino insieme a De Bernardi, quel cinema un po’ visionario e folle come lo chiama lei. A scoprirli è Adamo Vergine, che diventerà poi il suo compagno, era un medico ma per obbligo familiare, e quando il padre era morto si era dedicato alla sua passione, il cinema, l’arte. «Aveva fondato la Cooperativa del cinema indipendente e girava per l’Italia alla ricerca di film fatti da giovani. Allora eravamo molti, chi non sapeva scrivere o dipingere ma aveva voglia di esprimersi prendeva in mano una Super8 … Allora io ero sposata con Antonio Epremian, il padre di mia figlia, che ora non c’è più».

Nel ’68 portano i loro film all’università, Bacigalupo, un altro regista underground li mostra in Germania. «Alcuni poi come Lombardo e Lajolo si sono messi a filmare le manifestazioni. Mi dicevano che coi miei film vivevo nell’iperuranio … Tutti noi però pensavamo che ci si potesse esprimere e si potessero condividere le nostre cose. Avevamo la speranza di essere tutti artisti, che tutto potesse cambiare. Oggi purtroppo la situazione è molto diversa».