Si pensava che il «caso» Paul de Man, dopo lo scandalo scoppiato nel 1987 quando, tre anni dopo la morte del critico belga-americano, furono scoperti gli articoli pro-nazisti e antiebraici scritti in gioventù e le discussioni che ne seguirono, fosse ormai chiuso. Il metodo critico del decostruzionismo, di cui de Man, dalla sua cattedra di Yale, era stato uno dei principali rappresentanti e che durante gli anni settanta e ottanta aveva avuto grande fortuna in molte università americane, era ormai quasi del tutto archiviato, così come le discussioni su un possibile rapporto fra la concezione della lingua e della letteratura propria di quel metodo e i comportamenti enigmatici e discutibili di de Man, che aveva nascosto o negato il suo passato. La difesa appassionata e imbarazzata di Derrida e di non pochi colleghi del professore di Yale non sembrava aver molto convinto i detrattori e i critici, non solo di de Man ma del decostruzionismo in generale. Con l’arrivo di nuovi interessi e nuovi metodi sembrava ormai che sull’intera faccenda fosse calato il silenzio.

Ora però la pubblicazione di un’ampia, dettagliatissima, fin troppo pettegola biografia di de Man, scritta da una professoressa in pensione del Graduate Center della City University di New York, Evelyn Barish The double life of Paul De Man (Norton, New York, pp. 560, $ 35,00), ha inevitabilmente riaperto il caso. Due interventi importanti, fra gli altri, sono comparsi, uno sulla «New York Review of Books» (3 aprile) The Strange Case of Paul de Man di Peter Brooks, a suo tempo studente di de Man a Harvard e poi suo collega a Yale e l’altro sul «New Yorker» (24 marzo) The de Man Case. Does a critic’s past explain his criticism? di Louis Menand, professore a Harvard e staff writer della rivista newyorchese. Peter Brooks, che a suo tempo ha dato testimonianza dello straordinario fascino di de Man come insegnante, ora esprime il suo sconcerto, e avanza qualche giustificazione, di fronte alla nuova massa di dati sui comportamenti del critico. Quei dati sono molto più abbondanti di quelli finora noti e sono francamente distruttivi della personalità di De Man.

Oltre agli articoli molto imbarazzanti scritti sotto l’occupazione tedesca e fatti conoscere da una pubblicazione apposita qualche anno fa, ne sono stati trovati altri, usciti su riviste minori. Sono meglio precisati i legami con lo zio Henry de Man, importante uomo politico prima socialista e poi collaboratore con i diplomatici nazisti e le truppe di occupazione. C’è riportata la falsificazione di documenti: a Bard, per ottenere un posto di lettore, de Man dichiarò di aver partecipato alla Resistenza e inventò il titolo di una tesi di laurea mai scritta; a Harvard, per essere accettato nel programma di dottorato, dichiarò falsamente di avere ottenuto una laurea a Bruxelles.

C’è la menzogna sul padre: dichiarò di essere figlio del potente zio Henry, e non del suo vero padre, Bob de Man, ingegnere e proprietario di una fabbrica di apparecchiature per i raggi-X. Ci sono le manovre, i sotterfugi e i tracolli finanziari a Bruxelles nel mondo dell’editoria e della distribuzione di libri stranieri. C’è l’interrogatorio della commissione di epurazione nel 1946, che lo lasciò dubitosamente libero considerandolo un pesce troppo piccolo, mentre invece condannò lo zio e parecchi amici (quelli che non divennero partigiani e restarono legati al regime nazista). C’è la condanna a cinque anni di prigione emessa nel 1951 da un tribunale belga per truffa, falsificazione di fatture e altri procedimenti finanziari, per cui non poté più tornare in patria.

C’è la bigamia: de Man, che aveva come esempi il padre gran cacciatore di donne e lo zio che coltivava relazioni fuori dal matrimonio, fra cui una con Lucienne Didier, affascinante organizzatrice a Bruxelles di un centro politico-intellettuale di estrema destra, si sposò durante la guerra con Anne Baraghian, una bellissima giovane armena originaria di Tiflis in Georgia, cresciuta in Romania. Dopo aver partecipato per qualche tempo a un ménage-à-trois con Anne e il marito di lei, Gilbert Jaeger, che era suo amico, ebbe da Anne tre figli. Poi, quando lei, che nel frattempo si era trasferita in Argentina e aveva un nuovo compagno (poi sposato e quindi bigama a sua volta), comparve a casa di de Man al tempo in cui lui insegnava al Bard College a Annadale sull’Hudson e aveva avviato, dopo un breve incontro con Mary McCarty, una nuova relazione destinata a divenire un solido matrimonio, con Patricia Kelley, una studentessa del Bard, e stava in quel momento per essere padre di un nuovo figlio, fece i salti mortali per tenerla lontana dagli ambienti del college e venne a patti con lei, tenendo con sé il figlio maggiore Rik, che aveva nove anni (ma immediatamente lo spedì a vivere con la suocera a Washington e da allora non volle più avere a che fare con lui). Firmò un contratto di divorzio, promettendo un considerevole sostegno finanziario per Anne e gli altri due figli: promessa che non fu mai mantenuta.

Per cercare di spiegare gli aspetti più inquietanti dei comportamenti di de Man, Evelyn Barish dà molta importanza a due episodi: il fatto che sia stato proprio Paul a scoprire il cadavere della madre suicida, impiccata nella soffitta della casa di famiglia (un fatto traumatico di cui evitò sempre di parlare) e la delusione provata nell’essere abbandonato dal primo grande amore, la bella, intellettualmente brillante e più tardi comunista e resistente Frieda Vandervelden.

Peter Brooks, finissimo critico letterario, che molto si è occupato di psicologia e narrazione, confessioni e testimonianze in tribunale, ha buon gioco nel dimostrare le ingenuità psicologiche di Evelyn Barish, il suo troppo rigido moralismo e la sua ammissione di non avere mai capito gli oscuri saggi critici di de Man.Nel libro – osserva Brooks – ci sono non poche testimonianze prive di riscontro e parecchie inesattezze, come per esempio la dichiarazione che nel dopoguerra de Man amava attraversare l’Atlantico sul transatlantico Normandie (con una foto di accompagnamento in cui sono ritratti il critico e i suoi figli sulla nave) quando nella realtà il lussuoso transatlantico fu colpito da un incendio a New York nel 1942 e disarmato nel 1946.

L’elenco di Brooks è lungo: errori di date, attribuzione a Bataille di un famoso libro di Marcel Mauss, e così via. Posso aggiungere all’elenco delle imprecisioni una pagina in cui Eugenio Montale, che ebbe negli Trenta una relazione con Irma Brandeis, la Clizia delle Occasioni, più tardi amica e sostenitrice di Paul de Man al Bard, viene descritto come «poeta romano». Queste imprecisioni inducono inevitabilmente a sospettare di molte altre notizie presenti nel libro. Mentre Brooks ammette che Evelyn Barish ha scoperto molti importanti documenti su aspetti sconcertanti della vita di de Man, non accetta tuttavia la sua indignazione moralistica e cerca di difendere la memoria di Paul, soprattutto dal punto di vista della sua attività di insegnante e di critico. In particolare, a proposito di una lettera-confessione scritta a Renato Poggioli in risposta a una denuncia arrivata a Harvard sul passato di de Man (tutti pensano che a scriverla sia stata la prima moglie Anne dall’Argentina, ma purtroppo la lettera è scomparsa), Evelyn Barish sostiene che essa contiene falsità, reticenze e affermazioni discutibili, mentre Brooks la considera un esempio di semi-confessione carica di pathos e la collega al saggio di de Man sull’episodio del nastro rubato nelle Confessioni di Rousseau. Scrive Brooks: «La domanda resta: cosa ha significato il peso del passato nello sviluppo intellettuale di de Man? I nemici del decostruzionismo furono svelti a interpretare le rivelazioni come spiegazione: le opinioni di de Man sulla mancanza di coordinamento fra parola e mondo derivarono dalla sua necessità di negare la storia e la politica, di rinchiudersi in una camera acustica dove la lingua non aveva riferimenti al di fuori di se stessa. Queste tesi sono incapaci di afferrare le sottigliezze degli scritti di de Man così come quelle del rapporto fra il presente e un passato dal peso ossessivo.

L’opera di de Man resiste a ogni semplificazione e sistematizzazione? Come disse lui stesso, non era un filosofo, ma soltanto un filologo? E per di più si è evoluta nel tempo». Quanto a Louis Menand, egli è meno disposto a cercare giustificazioni psicologiche per i comportamenti inquietanti di de Man, anche se non può, alla fine, evitare di farlo e lo fa spostandosi sul terreno della psichiatria. Contrariamente a Evelyn Barish, che parla di narcisismo, per Menand il narcisismo non può spiegare tutti gli inganni e sotterfugi: «quello è il ritratto di un sociopatico». Il critico del «New Yorker» riconosce l’importanza del libro di Barish, basato su un lungo lavoro negli archivi belgi e su molte interviste, ma aggiunge anche che non sempre è attendibile e che l’atteggiamento accusatorio è spesso esagerato. «Il libro è un dossier per il giudice istruttore. Ma non è un attacco malevolo. E ha una storia stupefacente da raccontare.» Il libro è «messy» (confusionario) ma «affascinante». La storia di de Man e dei suoi comportamenti è davvero straordinaria e certamente non spiegabile con semplici chiavi psicologiche come il narcisismo, la doppia personalità, o simili patologie. Del resto, i rischi che de Man consapevolmente affrontò una volta sbarcato in America furono enormi. Chiede Menard: «Se voi foste un emigrato che cerca di nascondere un passato criminale, correreste il rischio di non pagare l’affitto della casa in cui abitate, come ha fatto regolarmente de Man? Sosterreste di avere dei titoli accademici e manipolereste i relativi diplomi, sapendo che chiunque potrebbe controllarli? Vi cavereste d’impaccio sostenendo che siete il figlio di vostro zio? A maggior ragione: diventereste il leader di una pregiata e controversa scuola di critica letteraria? Non lo fareste. Cerchereste di scomparire nell’anonimato.

De Man agì diversamente. Il suo non sembra il comportamento di uno che vuole essere smascherato, sembra quello di una persona che non ha un super-ego normale». Menard sta alla larga dalla tendenza, molto diffusa, a collegare i comportamenti e le ambiguità psicologiche di de Man con le posizioni sue nella teoria letteraria. «In cosa credeva de Man», si chiede. «È un mistero. La decostruzione è una via negativa. È utile per scendere al livello di quello che de Man chiamava il meccanismo del linguaggio. Ma non può ricavarne niente di concreto perché ogni cosa concreta è sempre e ripetutamente soggetta ai rigori della decostruzione. La decostruzione cominciò ad arenarsi quando si abituò a interpretare i testi in conformità con le idee politiche dell’interprete. La decostruzione non è un treno da cui si può scendere alla stazione più conveniente. De Man era un esperto conoscitore del nulla, ha scritto Hartman, parlando del critico e teorico della letteratura: de Man ha preso il treno fino al capolinea. È possibile che egli abbia potuto scrivere quello che ha scritto, sia le cose spaventosamente deplorevoli sia quelle spaventosamente stimolanti perché non credeva in nulla».