A otto anni dall’uscita del primo volume, si avvicina al compimento l’ambizioso progetto della Fondazione Micheletti di Brescia e della casa editrice milanese Jaca Book: L’Altronovecento, una grande enciclopedia del «comunismo eretico» e del «pensiero critico» novecenteschi. Alla scansione geografica dei primi cinque volumi (due sull’Europa e due sulle Americhe, l’ultimo – ancora in lavorazione – su Africa e Asia), segue ora una raccolta di contributi sul presente, Alle frontiere del capitale (pp.416, euro 40), curato da Massimo Cappitti, Mario Pezzella e Pier Paolo Poggio.

La Presentazione dei curatori delinea la «duplice tensione» all’origine del volume: «etica», «perché con il capitalismo dilagante non si può transigere» nell’epoca in cui il rapporto di capitale minaccia le basi stesse della vita sulla Terra; «teorica», perché urgono strumenti in grado di pensare e di trasformare un mondo in pericolo. Per ricostruirli, i principali punti di riferimento sono qui offerti dal «comunismo eretico», cioè dalle «esperienze radicali che non si sono declinate in forma di partito o di Stato, entrambi manifestazioni del potere concentrato della modernità».

IN REALTÀ, IL VOLUME prescinde da una partizione così drastica, che in fondo offrirebbe consolazione ideologica a una ragione vittimistica: il racconto di un’«eresia» rivoluzionaria sconfitta spiegherebbe in maniera riduttiva (la repressione convergente dell’«ortodossia» sovietica e del nemico di classe) perché storicamente non si siano invertiti i rapporti fra le parti; e non permetterebbe comunque di capire perché dopo il 1989 la crisi del socialismo reale ha trascinato con sé non solo le socialdemocrazie, ma anche le diversissime forze politiche alla sinistra del comunismo maggioritario.

Raccogliere in un solo volume le esperienze odierne di critica radicale al capitalismo è compito assai impegnativo. Forse avrebbe giovato un riferimento ad altri tentativi contemporanei, come quello del sociologo svedese Göran Therborn (From Marxism to Post-Marxism, Verso 2008; New Masses?, New Left Review, n. 85, 2014). La mappa che ne risulta è inevitabilmente parziale e selettiva, ma anche diseguale per genere di contributo (dal saggio teorico ai semplici appunti), per orizzonte disciplinare e, va detto, anche per effettivo rilievo e chiarezza di lettura. Oltre a questa natura variegata, anche la mole del libro (quattrocento pagine fittissime) e la sua articolazione in cinque blocchi (Ecologia e socialismo; Lavoro e capitale; Soggettività e forme di vita; Oltre la politica; Brecce) rende impossibile una trattazione unitaria.

FRA I MOLTI POSSIBILI, un filo per attraversare il volume, richiamato a più riprese dalla Presentazione, può essere offerto dal rapporto con la storia, un tratto rivelatore in un tempo assediato dal «presentismo» (François Hartog). Contro la «naturalizzazione» del capitalismo in un «presente astorico», ma senza cedere al rifugio nella memoria del passato o alla celebrazione delle aperture del «nuovo», Massimiliano Tomba invita a pensare, sulla scorta dell’ultimo Marx, di Benjamin e di Bloch, all’assemblaggio odierno di temporalità diverse. Il farsi globale della storia umana, sincronizzata dal «valore» forgiato dal rapporto di capitale, produce immancabilmente «anacronismi», che sono forieri di sviluppi alternativi: non come ritorno a forme sociali passate, ma per le opportunità presenti che dischiudono.

La presenza di modalità di relazione non mercantili e le anticipazioni di un diverso modo di vivere che si danno nel momento della lotta e dell’organizzazione rappresentano tensioni che orientano il presente verso un diverso futuro – un tema al centro anche dell’intervento di Kristin Ross sull’attualità della Comune parigina nelle lotte in difesa del territorio, come quelle della Zad francese e dei No-Tav valsusini.

LA FINE del «progressismo» informa anche il saggio di Pier Paolo Poggio: la crisi ambientale, orizzonte del nostro tempo, costituisce infatti una rottura storica. Se l’indifferenza e l’inerzia di fronte ad allarmi ormai quotidiani accomunano gran parte delle classi dirigenti, non offrono soluzioni né la via d’uscita tecnico-scientifica (adattarsi a un mondo artificiale), né la teorizzazione di uno «sviluppo sostenibile» (civilizzare il capitalismo). Si delinea invece un’alternativa a partire dai conflitti ambientali e dalla critica degli usi e delle appropriazioni della scienza e della tecnica, verso una conversione ecologica della società che ponga limiti alla distruzione della Natura, ad esempio riducendo i consumi energetici e la produzione di rifiuti, ristabilendo forme di circolarità e valorizzando un settore primario de-industrializzato.

Come ribadisce Michael Löwy questa prospettiva «ecosocialista» richiederebbe una «politica economica fondata su criteri non monetari ed extraeconomici», dunque la fuoriuscita dal capitalismo, verso una società a piena occupazione con il controllo pubblico sui mezzi di produzione, attraverso una pianificazione democratica e partecipata che soddisfi i bisogni (cibo, alloggio, vestiario) e i servizi (salute, educazione, comunicazioni e cultura).

QUESTO «COMUNISMO solare» trova una suggestiva formulazione nello scritto di Giorgio Nebbia, uno dei padri dell’ecologismo italiano, che si riallaccia alla tradizione utopistica con una Lettera dal 2100. Vi si descrive una «società postcapitalistica comunitaria» retta dalla «proprietà collettiva» e tesa a minimizzare le scorie inquinanti: un arcipelago di piccoli insediamenti resi autosufficienti dal decentramento di produzione di energie rinnovabili. Il rapporto fra marxismo e utopia è al centro del contributo del compianto Miguel Abensour, alla cui memoria è dedicato il volume.

NELL’IMPORTANTE SAGGIO dello storico Karl-Heinz Roth si propone una riformulazione della critica marxiana dell’economia politica alla luce degli sviluppi storici, ampliando le forme che contribuiscono alla valorizzazione (lavori non salariati, riproduzione, natura) e introducendo maggiore attenzione all’espropriazione delle popolazioni messe al lavoro e al peso della rendita fondiaria: il capitalismo vede il continuo ripetersi di dinamiche di «accumulazione originaria», a permanente sconvolgimento della natura e della società. Si deve a un sociologo, Ferruccio Gambino, un ricco profilo del lavoro contemporaneo, a partire dalla compresenza di forme di lavoro coatto (dominate dalla «paura» per la propria incolumità) e di salariato più o meno precario (che genera «timore» di disoccupazione).

DI QUESTA SITUAZIONE, articolata dal diritto o meno alla mobilità, si traccia un’interessante genealogia secondo-novecentesca, a partire dall’esperienza statunitense, precoce ispirazione per il resto d’Occidente, dalle realtà postcoloniali, laboratori di precarizzazione, e dal «tradimento» (con Raniero Panzieri) del movimento operaio europeo che è alle radici della frammentazione estrema del lavoro contemporaneo.

Il volume presenta contributi interessanti, anche se spesso parziali, su molti altri aspetti del presente, dalla cultura di massa (Daniele Balicco) alla forma-Stato (Alessandro Simoncini), e insiste opportunamente, nel contributo di Carlo Tombola, sull’orizzonte della catastrofe atomica globale e sulla proliferazione della produzione di armi, usate soprattutto in guerre contro i civili. Piace tuttavia chiudere con una nota di speranza nell’«esperienza plebea», che si presenta, secondo il contributo di Martin Breaugh, in ricorrenti lotte per allargare la democrazia, che hanno il loro paradigma nell’Aventino dell’antica Roma e le loro ultime incarnazioni nelle Primavere arabe e in Occupy Wall Street.