Sessantamila ricercatori precari sono studenti a vita. Lo ha confermato il ministero del Lavoro che ieri, dopo l’approvazione della legge di stabilità e con cinque mesi di ritardo, ha risposto all’interpello inviatogli dalla campagna #perchèiono? Sindacati come Flc-Cgil, i dottorandi dell’Adi, studenti di Link, i precari della ricerca Crnsu e i ricercatori della Rete29Aprile hanno chiesto l’estensione del sussidio Dis-Coll ai dottorandi di ricerca, assegnisti e borsisti universitari, la stessa misura rifinanziata con 54 milioni sul 2016 e 24 milioni sul 2017 dalla legge di stabilità per i collaboratori continuativi.

Per i ricercatori precari non c’è nulla da fare: il loro non è un lavoro, è un hobby. Uno scandalo nel paese dove il ministro del lavoro Poletti auspica una laurea modesta con 97 a 21 anni e non una a 28 con 110.

Ricerca senza diritti, ma speciale

Il documento del ministero del lavoro è un prezioso reperto archeologico della mentalità lavorista dominante nel Jobs Act. Chi fa ricerca, questo in realtà si sostiene, esercita un’attività separata, non un lavoro della conoscenza. Per sua natura, si distingue dagli altri collaboratori a progetto, anche se i precari della ricerca firmano un contratto dello stesso tipo e, come tutti i collaboratori, sono iscritti alla gestione separata dell’Inps. Per il ministero questo non basta a giustificare la richiesta di un sussidio di disoccupazione erogato a chi versa i contributi all’Inps. Il documento, reso noto dai dottorandi dell’Adi e dalla Flc-Cgil, ripresenta un pregiudizio: i precari – trenta-quarantenni – sono «in formazione».

Questo significa: quando perdono lo stipendio, devono continuare a lavorare gratis sperando in una nuova borsa. A tutto il resto ci pensano papà e mamma. Il ricercatore è vittima della sua «specialità» e viene considerato un’appendice del suo progetto di ricerca. L’università è come l’Expo: si lavora da volontari, nella speranza di percepire un reddito domani. O magari un concorso. A questa realtà allude il testo del ministero che parla di «natura speciale del rapporto di ricerca», un «rapporto del tutto peculiare» non riconducibile alle prestazioni del lavoro autonomo o a quello parasubordinato. Il rifiuto di un diritto di base si spiega con il fatto che la ricerca non è un mestiere per tutti. La può fare chi se la può comprare.

Gli esperti del ministero del lavoro sostengono inoltre che i dottorandi con borsa non versano 1300 euro di contributi all’anno alla gestione separata dell’Inps, come fa più di un milione e mezzo di partite Iva e collaboratori. Al ministero non si sono nemmeno posti il problema di aprire la pagina dedicata dall’Inps che dimostra l’opposto.

A cosa serve un precario

Dove finiscono i 1300 euro all’anno da moltiplicare per 60 mila. Nel buco nero della gestione separata, una delle poche in attivo che serve a ripianare i debiti delle altre casse. Ma non a espletare il suo compito: erogare i sussidi per disoccupazione o per la malattia, ad esempio. I precari e i freelance sostengono il welfare italiano senza contropartita. Il Jobs Act continua questa discriminazione. Una realtà denunciata dai movimenti del lavoro indipendente. E’ giunto il momento che anche gli universitari comprendano la loro condizione e si uniscano a coloro che materialmente la condividono come i freelance e i lavoratori indipendenti che hanno formulato una prima bozza di carta dei propri diritti.

La protesta dei ricercatori ha evidenziato quanto poco al governo Renzi interessino il lavoro e la cultura, mentre nella legge di stabilità stanzia 50 milioni per assumere 500 «eccellenze». Una contraddizione clamorosa: 60 mila senza diritti minimi, 500 assunti anche senza abilitazione nazionale.

Accademici fuori dal diritto

Dal 1 gennaio 2016 il Jobs Act prevede il superamento dei contratti a progetto. I rapporti di collaborazione dovranno essere ricondotti al rapporto di lavoro subordinato. Che cosa accadrà ai ricercatori precari? Probabilmente resteranno vittime della loro “specialità”, pur mantenendo con il loro dominus e la loro facoltà un rapporto di lavoro subordinato, di esclusività personale, di continuità e di eterorganizzazione. Vale a dire le tre caratteristiche riconosciute dal Jobs Act per “smascherare” le false collaborazioni. La regola non varrà solo per i nuovi contratti, ma anche per quelli in essere. Per esempio, se una falsa collaborazione scade a febbraio 2016, l’azienda dovrà regolarizzare la posizione del lavoratore se non vorrà rischiare di incorrere nella sanzione del tribunale. Sembra che queste caratteristiche non varranno per l’università.

La ricerca resterà nel limbo dove i diritti non esistono. Sono concessioni a tempo determinato.