Per comprendere l’evoluzione delle recenti trasformazioni urbane di Parma è forse sufficiente percorrere i cinquanta metri che, nel cuore della città storica, separano Piazzale della Pilotta da Piazza della Ghiaia. Pochi passi che permettono di inquadrare, una accanto all’altra, le espressioni di un’illuminata etica della cosa pubblica, probabilmente smarrita, l’arroganza miope degli anni del “fare” berlusconiano, la paralisi cerebrale dell’oggi. Ovvero, la rappresentazione delle diverse fasi di una crisi che a Parma ha avuto origini di carattere culturale, assai prima che di natura economica.

C’era una volta la piazza

Piazzale della Pilotta è il grande squarcio lasciato dalla guerra davanti al palazzo del potere farnesiano, uno spazio rimasto abbandonato per decenni, in attesa che se ne definisse la destinazione urbanistica. Dopo una sequela di progetti e concorsi di idee, tutti finalizzati a costruire un volume, qualunque esso fosse, l’ultima giunta di centrosinistra di Parma, alla fine degli anni novanta, decise di sciogliere quel nodo urbanistico irrisolto, pensando una sorta di consapevole spazio vuoto, senza volumi, né edifici, né emergenze. E così si realizzò il progetto di Mario Botta, semplicemente un grande prato ai piedi del Palazzo seicentesco, aperto alla città, costellato di radi segni minimali. Un progetto che ebbe il merito di restituire monumentalità al Palazzo ma che rappresentava anche l’espressione della resistenza coraggiosa alle pulsioni edificatorie.

Con il succedersi in Comune di maggioranze diverse (tre di centro destra e una del movimento Cinquestelle), si perdette progressivamente il senso di quella scelta, abbandonando di nuovo la piazza a se stessa, con il risultato che oggi è uno spazio degradato, mortificato da troppe aggiunte edilizie incongrue. Ma uno spazio degradato favorisce fatalmente comportamenti socialmente sbagliati e quindi la piazza è diventata anche scenario di attività illecite. Un problema di fronte al quale la miseria intellettuale dell’oggi sembra suggerire solo soluzioni imbarazzanti, come l’idea di recintare la piazza, chiudendola alla fruizione pubblica.

piazza-ghiaia
Poche decine di metri separano la Pilotta dalla Ghiaia, sede storica del mercato alimentare, che era il luogo più vivo della città e che un progetto promosso dalla Giunta di centrodestra nel 2005 e affidato a una gestione privata, ha portato alla sua desertificazione, con l’emigrazione definitiva dei vecchi negozi alimentari. Oggi grandi vele in acciaio e vetro coprono uno spazio inutilizzato, in cui nessuno ha ancora una chiara idea di cosa farci, e attorno al quale, al posto delle vecchie botteghe sfrattate per sempre, aprono profumerie in franchising e negozi di chincaglierie orientali. Un piano sotterraneo, senza illuminazione diretta, ospita negozi che sono già chiusi, perché a nessuno viene in mente di andare laggiù a fare la spesa. In realtà, la vera finalità, soprattutto economica, di questo progetto, che ha ucciso un pezzo fondamentale dell’identità di una città, era la costruzione di un parcheggio sotterraneo privato, sotto la piazza, la cui rampa di accesso costituisce oggi un improprio “retro”, rivolto come un gesto irrispettoso verso la facciata laterale della Pilotta farnesiana, umiliando così la relazione tra le due piazze, come tra due progetti, accentuando la differenza tra due concezioni antitetiche della cosa pubblica, del rapporto tra storia, cultura e città.

Cos’è rimasto del quartiere delle barricate?

Ma è forse nell’Oltretorrente, il quartiere popolare sull’altra sponda del torrente Parma, che si manifesta oggi, con ancora maggiore crudezza, la crisi della città, esplicitata nella distesa di cartelli “Vendesi” affissi alle saracinesche abbassate delle vecchie botteghe e nei portoni delle case di civile abitazione nella prima parte di via Bixio, il cuore del quartiere. La sopravvivenza del quartiere è garantita ancora dalla presenza di alcuni dipartimenti universitari (salvati per fortuna dalle spinte alla delocalizzazione), quindi dagli studenti e da alcune comunità straniere. Ma il senso di abbandono che lo pervade è l’emblema di una ferita aperta.

L’Oltretorrente è il quartiere che aveva visto sconfitte le truppe di Italo Balbo nel 1922, fermate dalle barricate, e che venne poi punito, al punto che l’urbanistica del ventennio operò qui alcuni squarci traumatici, che non riuscirono tuttavia a sradicarne l’anima. Ma l’opera di scardinamento sociale, che non riuscì a Mussolini, sembra invece riuscita alle politiche urbanistiche degli ultimi anni, conseguenza diretta di una trasmutazione della forma urbana, che nella follia edificatoria di inizio millennio, in poco più di dieci anni ha sconvolto un equilibrio consolidato, realizzando una città fuori dalla città, che ha generato l’abbandono progressivo di molte funzioni del centro, tra cui, in primis, residenza e terziario.

La nuova città è cresciuta attorno ai nuovi centri commerciali, seminati lungo le tangenziali: negli anni novanta ne esisteva solo uno, mentre ora ne sono stati realizzati altri sei, oltre a una trentina di supermercati, ipermercati, grandi centri di vendita specializzati. In una città, che rimane stabilmente sotto quota 200 mila abitanti, l’impatto sul tessuto esistente è stato pesante, perché ha indotto a nuovi comportamenti sociali e allo spostamento dei baricentri di interesse aggregativo. Sono trasformazioni urbane che derivano in linea diretta dall’evoluzione di alcuni passaggi politici, a partire dall’avventura neoliberista avviata nel 1998 dal sindaco Elvio Ubaldi, sino all’implosione della maggioranza di centrodestra culminata con gli arresti, tra cui quello del suo successore, Pietro Vignali.

Il territorio depredato

E il territorio è stato, come sempre in questo disgraziato paese, materiale di scambio privilegiato, tra politica e affari. Il mito della “città cantiere”, la delegittimazione del Piano urbanistico come strumento di regolazione dei fenomeni, hanno reso agevole un processo di privatizzazione della cosa pubblica e di depredazione della risorsa suolo. Il piano regolatore, sempre derogabile tramite varianti, accordi di programma, strumenti attuativi, modifiche regolamentari, venne ridotto al paravento mobile dell’accondiscendenza alle istanze edificatorie. Sul Prg di Bruno Gabrielli, che la nuova maggioranza di centrodestra aveva ereditato dalla precedente nel 1998, furono approvate oltre 1.400 Osservazioni, sventrandone l’assetto dimensionale e dando il via a un assalto alla diligenza che non avrebbe avuto pause per quasi quindici anni. Un’escalation volumetrica, che doveva condurre fatalmente allo scoppio della bolla immobiliare, uno scoppio che è arrivato tuttavia molto tardi, forse troppo tardi, e che ha fatto le prime vittime proprio nel settore edile che aveva scommesso su un’espansione senza fine né limiti. La sezione fallimentare del Tribunale è diventata teatro di un’ecatombe di imprese, medie e piccole; la nuova periferia è costellata di cantieri abbandonati, di case fantasma invendute, in un mercato immobiliare esangue, tra eccesso di offerta e congelamento della domanda.

Quando la magistratura scoperchiò il vaso in cui erano racchiusi i vizi del sistema di potere, la reazione, di fatto, fu debole. Non seppe reagire soprattutto il centrosinistra, che riuscì a perdere nel 2012 elezioni comunali già vinte, nella presunzione che bastasse stringere un patto con alcuni centri di interesse (gli stessi che avevano appoggiato per anni le precedenti maggioranze), per “riprendersi” la città, con un’operazione di potere, che è stata umiliata dagli elettori. L’avvallo costante o, più precisamente, il non-dissenso che la Provincia, retta dal centro sinistra, aveva garantito alle politiche urbanistiche del centrodestra, aveva reso poco credibile la sua posizione di alternativa.

Non rubare, il nuovo comandamento 

In questo contesto è nata la vittoria del movimento Cinquestelle, come reazione di una città libertaria, individualista e comunque poco incline alla disciplina di schieramento, a una politica in cui destra e sinistra apparivano corresponsabili del disastro, anche se in misure e modi diversi, e in cui quindi occorreva voltare radicalmente pagina. Quello che è stato poi avviato dai Cinquestelle è un esperimento ancora non delineato, ispirato a un principio di rigore, il “non rubare”, che sembra già molto, nel quadro di un paese corrotto, ma che ad oggi non sembra dimostrare contorni o strategie definiti, né molte idee, impegnato come è soprattutto nel controllo del debito, tra diminuzione di servizi e aumenti tariffari.

Eppure proprio nelle politiche urbanistiche i primi segnali non sono stati esaltanti: appena insediati, i nuovi amministratori hanno ritenuto di dare immediata approvazione a strumenti attuativi di espansione edilizia, anche in casi controversi, in cui ritrovamenti archeologici, vizi procedurali, errori progettuali palesi avrebbero consigliato, se non altro, di ridiscutere scelte sbagliate della passata amministrazione. Una modalità vecchio stile, dettata dalla volontà di portare ad incasso, in un bilancio comunale esangue, ulteriori introiti per oneri di urbanizzazione, ma che è apparso, nella sostanza, anche un segnale di rassicurazione verso il settore immobiliare.

Le politiche locali attuali, una sorta di navigazione a vista senza molto orizzonte, sembrano volere accentuare il senso della ferita aperta, un’autopunizione che Parma si infligge per le proprie colpe, un cilicio politico che si traduce in una rassegnazione collettiva, si rispecchia nel degrado degli spazi pubblici, nell’abbandono diffuso dei rifiuti per le strade, come nell’addormentamento della vita culturale e nell’aumento del disagio sociale.

Da città capitale di tutto, un refrain ossessivo ripetuto per quindici anni, la Parma delle grandi opere, che voleva persino una metropolitana, come le capitali europee, nell’apice della crisi si trova a essere cavia di un esperimento politico improvvisato, in cui, paradossalmente, la grande nuova opera che sembra meglio funzionare è quel termovalorizzatore, nel cuore della foodvalley, attorno al quale nel 2012 si consumò una battaglia elettorale, che portò alla vittoria di chi ne aveva con solennità promesso il blocco della costruzione.

Un simbolo anch’esso, che, inutilmente, si vorrebbe oggi rimosso dalla coscienza collettiva, e che invece se ne sta lì, imponente, alle porte di accesso sull’autostrada, a esprimere in sé, nel bene e nel male, tutte le contraddizioni di una città e della sua cultura politica.