Per quanto José Raúl Mulino fosse in testa in tutti i sondaggi, la sua vittoria, con il 34% delle preferenze, non può non provocare un certo stupore. Il risultato delle presidenziali di domenica a Panama, a turno unico e a maggioranza semplice, è infatti paradossale per molti versi.

In un paese in cui la corruzione figura tra i temi che più preoccupano gli abitanti, il prossimo capo di stato sarà un fedelissimo dell’ex presidente conservatore Ricardo Martinelli, tagliato fuori lo scorso marzo dalla competizione elettorale in seguito alla sua condanna a 10 anni e mezzo di prigione per riciclaggio di denaro e oggi rifugiato nell’ambasciata del Nicaragua, da dove ha potuto, in maniera indisturbata, fare campagna elettorale a favore del suo pupillo. Tant’è che Mulino, in un primo momento candidato a vice di Martinelli e poi subentrato a lui dopo una discussa sentenza della Corte suprema, in piena giornata elettorale si è recato in visita all’ambasciata nicaraguense facendosi fotografare abbracciato all’ex presidente. E anche prima non aveva mai nascosto la sua intenzione di «aiutare» Martinelli a evitare la condanna, a suo dire frutto di una persecuzione politica.

Ma non è tutto. In un paese scosso negli ultimi anni da massicce proteste, quella stessa popolazione che era stata repressa e criminalizzata per la sua lotta contro il contratto minerario firmato dal governo di Laurentino Cortizo con l’impresa Minera Panamá (filiale della canadese First Quantum Minerals) ha condotto alla presidenza un ex ministro della Sicurezza – per l’appunto sotto il governo Martinelli – che si era distinto in passato proprio per la repressione poliziesca di una protesta a favore dei diritti sindacali che, nel 2010, nella provincia di Bocas del Toro, si era conclusa con due manifestanti morti e decine di feriti. Un esponente di lungo corso, e neppure particolarmente carismatico, di quella classe dirigente che i panamensi, al grido di “que se vayan todos”, vorrebbero periodicamente mandare a casa, salvo poi tornare maggioritariamente a votarla. Mentre Maribel Gordón, l’unica candidata di sinistra – una sinistra, va detto, che è stata sempre irrilevante nel paese – non è andata oltre l’1%, giungendo ultima.

In linea con la rivolta contro il modello minerario (e anche contro l’aumento del costo della vita e la crescente disuguaglianza sociale), è stato punito, perlomeno, il candidato del partito attualmente al potere (Partido Revolucionario Democrático) José Gabriel Carrizo, battuto pure dall’avvocato Ricardo Lombana, una via di mezzo tra Bukele e Milei con ascia in mano al posto della motosega (25% dei voti), dall’ex presidente socialdemocratico Martín Torrijos (16%) e da altri candidati, ottenendo un misero 5,8% delle preferenze.

Se Mulino sarà il prossimo presidente, è chiaro, tuttavia, che il vero vincitore è Martinelli, il quale, malgrado i ripetuti scandali di corruzione che hanno lastricato la sua presidenza, gode ancora di un forte consenso in una parte significativa della popolazione. Perché è vero, pensano in tanti, che Martinelli rubava, ma perlomeno «le cose le faceva», come indicherebbe la crescita, vicina all’8% del Pil, registrata a Panama sotto il suo governo, benché gli analisti siano concordi nel ritenere che le attuali condizioni economiche siano oggi profondamente cambiate. «Mulino è Martinelli», è stato non a caso lo slogan della breve campagna elettorale del futuro presidente.

A favorire Mulino, tuttavia, è stata anche la sua promessa di una politica del pugno di ferro – sempre più di moda nel continente – non solo contro il crimine organizzato ma anche contro il crescente flusso di migranti (più di mezzo milione nel 2023) attraverso la pericolosissima selva del Darién, al confine tra Colombia e Panama, che il vincitore delle elezioni ha addirittura promesso di «chiudere» ai migranti diretti negli Stati Uniti. Come poi sia possibile farlo, lungo i suoi 266 km, ha preferito rimanere sul vago: «Non lo so, ma in caso, se vince Trump, gli dico di gettarmi una palata di cemento da questo lato, per costruire un altro muro».

Le promesse tuttavia non costano nulla e Mulino non si è risparmiato, evocando la solita creazione di posti di lavoro, un maggior accesso all’acqua potabile e all’elettricità, più sicurezza, l’ampliamento della metro nella capitale (inaugurata nel 2014 proprio da Martinelli), la costruzione di strade e di un treno che colleghi Città di Panama con l’interno.

Manca solo la promessa di far piovere più spesso, a fronte di una siccità che, riducendo il livello dell’acqua, ha ridotto il flusso di imbarcazioni in quel canale marittimo che è il principale pilastro dell’economia panamense.