«Il socialismo venezuelano è quanto di più vicino al Vangelo abbia incontrato in America latina. Non abbandonerò questo percorso che il popolo ha iniziato». Così dice al manifesto il gesuita Numa Molina, 57 anni, parroco della Iglesias San Francisco a Caracas. Teologo e giornalista, ha studiato all’Università gregoriana, dove fa tappa ogni volta che torna a Roma. Lo abbiamo incontrato durante il suo recente viaggio in Vaticano con la delegazione governativa venezuelana, venuta ad assistere alla canonizzazione di papa Giovanni XXIII e di Wojtyla.

Padre Numa, come ha incontrato il socialismo bolivariano? Cosa la spinge a schierarsi con un governo che le gerarchie cattoliche vedono come il fumo negli occhi?

Ho seguito le scelte della parte più povera del paese, a cui appartengo. La mia è una famiglia contadina del Merida, ai confini con la Colombia. Ho ricevuto un’educazione profondamente cattolica. Durante la IV Repubblica ho visto mia madre morire di parto perché non c’era un solo medico nel villaggio, i contadini non contavano niente. A 14 anni ero impegnato nella lotta sociale, non pensavo di dedicarmi al sacerdozio. Poi sono diventato maestro e ho conosciuto alcuni giovani universitari cristiani, che aiutavano i bambini lustrascarpe. Ho lavorato con loro, guardando in faccia l’insopportabile povertà provocata dal neoliberismo degli anni ’80. I bambini allora mangiavano le scatolette per cani, le madri gliele diluivano con l’acqua nel biberon. Non ho più voluto stare al chiuso di un’aula, pensavo che il mio cammino fosse un altro ma non vedevo ancora quale. Il mio primo voto l’ho dato al Copei: perché si definiva un partito social-cristiano, ma anche perché includeva la Gioventù rivoluzionaria copeiana. Mi attirava la parola rivoluzione: risuonava un po’ dappertutto in Venezuela, ma non molto dalle mie parti che sono sempre state conservatrici. Presto, però, mi sono accorto della trappola e non ho più votato per quei politici corrotti che perpetuavano la miseria. E poi Hugo Chávez ha cominciato a girare per le campagne, a spiegare con parole semplici chi era responsabile della miseria che anch’egli aveva sofferto da bambino vendendo dolci per strada. Il suo discorso era uguale al mio. Intanto, l’assassinio di Monsignor Romero in Salvador e poi dei gesuiti, i martiri dell’università Uca, avevano dato una svolta alla mia vocazione. Volevo seguire il loro esempio, quello di Gesù di Nazareth: farmi povero fra i poveri. Concepire il prete come un professionista della religione significa sprecare la propria vita. Alla Gregoriana, uno dei migliori professori che ricordi era un vecchio gesuita colombiano che ci ha insegnato il marxismo per tre trimestri.

E come valuta Bergoglio, il primo papa gesuita della storia? Alcuni teologi della Liberazione temono che finisca per avversare il Socialismo del XXI secolo come Wojtyla fece con il comunismo. Stare coi poveri non significa sopportarne il riscatto.

È presto per dirlo, ma i primi segnali sono positivi. In gioventù, Bergoglio ha fatto parte della Teologia del popolo, la corrente argentina della Teologia della liberazione. Non condivido le accuse di connivenza con la dittatura militare che all’inizio gli vennero rivolte per via dell’arresto di alcuni gesuiti. So per certo che cercò di avvertirli del pericolo che correvano, ma loro non hanno voluto fuggire, sono rimasti nei barrios e sono stati arrestati e torturati, per fortuna non sono morti. E poi, come ha confermato di recente in un colloquio con un artista argentino, Bergoglio condivide il sogno di Bolivar della Patria grande. Credo che questo papa stia davvero cercando di cambiare il conservatorismo di una certa chiesa di Roma, e deve stare attento. In Venezuela la schiavitù si protrasse così a lungo anche perché ogni vescovo aveva il suo gruppo di schiavi che non voleva perdere. Sono venuto in Vaticano per essere utile al mio paese, non per comparire nelle cerimonie di quel tipo di chiesa trionfalista. Anticamente, la santità di qualcuno veniva stabilita dal popolo. Il vescovo Romero è da tempo «san Romero d’America». Noi abbiamo chiesto la canonizzazione del medico dei poveri José Gregorio Hernandez, che da oltre un secolo la gente venera come santo. Figure come quella servono per unire il popolo, anche in questa situazione delicata che vive il Venezuela.

La delegazione venezuelana di cui ha fatto parte ha consegnato a Bergoglio una copia del Plan de la patria, il programma strategico approvato dal parlamento che la Conferenza episcopale venezuelana considera invece un’offesa all’opposizione con cui è da sempre schierata. Come giudica la mediazione del Vaticano nei colloqui di pace in corso tra governo e opposizione?

Il Venezuela è un paese molto cattolico, il chavismo è sorto dalle masse cattoliche, e queste si sentono abbandonate dalle gerarchie ecclesiastiche che non hanno saputo capirlo: perché – si chiede il popolo – il prete mi parla male del governo se prima avevo fame e ora non più, se prima ero analfabeta e ora sono istruito e ho il computer gratuito con il wi-fi? Così il popolo continua a essere credente, ma senza il sacerdote, vive orfano della sua chiesa. È quello che ho percepito durante la malattia di Chávez, correndo da un barrio all’altro per recitare orazioni: con il cuore in mano e il pianto negli occhi, per dare al popolo il coraggio di continuare a camminare. Chávez era un uomo molto credente, profondamente spirituale, con una dimensione del trascendente che ha radicato nella storia, nell’amore per il prossimo e nel socialismo. E per questo è stato un gigante. Ma le gerarchie cattoliche non ho hanno capito. Poco prima di morire, prima che partisse per Cuba per le ultime cure, mi ha chiamato per chiedere conferma di alcune citazioni bibliche, ricordo il Primo capitolo di Isaia. Voleva che stessi al suo fianco, che dicessi messa al popolo fuori da Miraflores. E ora, non è stata la Conferenza episcopale ma il presidente Nicolas Maduro a leggere la lettera per la pace inviata da papa Francesco. Per ora, il nuovo Nunzio apostolico, Aldo Giordano, si sta muovendo con rispetto per entrambe le parti. Non gli si chiede di essere chavista, ma di essere onesto con la realtà e di conseguenza con la verità. Il proceso bolivariano non è perfetto, può aver fatto degli errori e imbarcato gente che non assolve come dovrebbe al proprio compito, ma ha costruito molte cose buone su cui non si può mentire.

Nel Merida, sua zona d’origine c’è la storica Universidad de Los Andes (Ula), dove ha insegnato anche il fratello maggiore di Hugo Chávez, Adan, che lo ha iniziato al marxismo. Oggi la Ula è uno dei focolai di protesta dell’opposizione. Cosa succede?

Le proteste violente di questi mesi non si comprendono davvero senza tener conto del paramilitarismo e del narcotraffico che hanno interesse a incendiare la frontiera con la Colombia. Quelli che vengono dipinti come studenti, il più delle volte non sono tali, come indicano le statistiche e come invece tace la gran parte del giornalismo internazionale, la cui etica oggi è ai minimi storici. Grazie all’unione civico-militare, la popolazione ha accompagnato oltre 2.000 soldati a riportare la calma in Merida. Senza colpo ferire. Il dialogo va bene, ma è difficile ottenere la pace quando vi sono forze che rispondono agli interessi esterni e non a quelli del proprio paese. Le madri che hanno perso i figli sgozzati dal fil di ferro teso per strada dai guarimberos considerano l’eventualità di un’amnistia come il trionfo dell’impunità. Come si fa a rimettere in libertà chi ha dato fuoco alle università, a un asilo pieno di bambini o a un centro medico con il personale cubano all’interno? Però si deve valutare che in carcere non rimangano innocenti, magari presi nella retata di poliziotti che hanno voluto apparire efficienti.