Un mese prima di andarsene, Luigi Pintor scrive un editoriale con un incipit fulminante: «La sinistra italiana che conosciamo è morta». Da quell’aprile del 2003, l’anno della guerra in Iraq, di Berlusconi al comando del paese, sono passati dieci anni e lo scenario politico potrebbe essere contenuto nella sentenza senz’appello di quell’ultimo scritto pintoriano. Che prosegue invitando a guardare in faccia la realtà senza mentire a se stessi sul punto cruciale di una sconfitta storica: «Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette». E aggiunge infilzando la penna nella falsa coscienza: «Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa». Pintor in quel momento si riferisce ai democratici di sinistra, alla subalternità di quel partito, al grado di «soggezione non solo alla politica della destra ma al suo punto di vista, alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno».

Il suo manifesto aveva invece sempre coltivato, e continua a coltivare ad ogni costo, proprio il punto di vista. Per lui, per noi, lo scopo della sinistra non è «vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo», perché per lui, come per noi «lo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste».

Chissà cosa scriverebbe oggi, Luigi, di fronte ai roghi dei nuovi poveri, ai suicidi per la vergogna della propria indigenza, alla inedita (per noi nati nel boom del dopoguerra) violenza del liberismo, ai mille morti della fabbrica tessile del Bangladesh, al governo del Pd con Berlusconi, alla bagarre quirinalizia, fino alla sgangherata parrucca rossa di Giuliano Ferrara per schernire la giudice Bocassini.

Siamo stati molto sfortunati ad averlo perso così presto, perché in effetti siamo tentati di consolarci per una manifestazione riuscita (quella della Fiom domani), per una elezione parziale vinta (speriamo a Roma la prossima settimana).

Allora come adesso ci vuole coraggio, molto, per essere ottimisti. Ma vogliamo esserlo avendo in mente la lezione politica, e di vita, del fondatore del manifesto, il suo modo di esprimere la critica con passione, disinteresse, ironia. Senza saccenteria. Per continuare ad accogliere su queste pagine tutti quelli che ogni giorno ricominciano, lontani dal potere, un po’ anarchici, un po’ comunità. Sapendo di poter «al massimo esercitare una suggestione», per produrre nel tempo lungo un orientamento politico e sedimentarlo.

Un allenamento critico quotidiano da consegnare a chi, nell’avvicendamento delle generazioni, cercherà di non tradire la sua eredità. Condensabile in alcune regole, che purtroppo spesso trascuriamo, e che, invece, per lui rappresentavano l’anima del giornale, di qualunque giornale, del manifesto come del Corriere della Sera.

Secondo Luigi un giornale deve evitare come la peste di essere noioso, mentre deve, assolutamente deve, essere «polemico, critico e propagandistico», fuggendo la triade di un certo luogocomunismo che lo vorrebbe «costruttivo, propositivo, formativo». Erano queste le famose “leggi di Pintor”. Le enumerava e spiegava quando, nel ’73, due anni dopo la nascita di quelle storiche quattro pagine, già non le ritrovava più. Qui sarebbe giusto ricordare perché. Forse può bastare regalare ai nostri lettori il gran finale di quel meraviglioso decalogo. Dopo aver detto perché l’ibrido manifesto non riusciva ad essere come lui l’avrebbe voluto, Luigi scrive: «Questo giornale mi sevizia ogni giorno: come mestiere lo odio, e lo odio anche come libero pensatore. Il che sospetto celi una più generale insofferenza per la politica militante, o forse per la politica e basta, o per alcunché di militante, compresa la pubblicistica. E sia spia di un incipiente decadentismo (ma forse torniamo a un’epoca in cui la scelta è tra decadentismo e fascismo, sicché il primo è meglio)». Da queste righe dovrebbe essere abbastanza chiaro perché non possiamo non dirci pintoriani.