È singolare che di fronte a un omicidio politico apertamente e quasi orgogliosamente rivendicato dai comunisti siano sorti tanti dubbi e ipotesi stravaganti. Si parla dell’uccisione di Giovanni Gentile, eseguita da un comando dei GAP il 15 aprile 1944. Aveva cominciato nel 1985 Luciano Canfora (La sentenza, edizioni Sellerio), che però era partito da un problema reale: l’aggiunta finale di Girolamo Li Causi a un articolo di condanna di Gentile scritto da Concetto Marchesi e che poteva suonare appunto come una sentenza di morte. Poi si sono aggiunti nel tempo testi di vari autori che hanno finito per dar vita a un cospicuo filone di letteratura complottistica.

Il massiccio libro di Luciano Mecacci (La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, pp. 520, euro 25,00), se da un lato suscita sincera ammirazione per lo sforzo fatto dall’autore di ricostruire tutte le possibili piste che si dipanano attorno all’evento, sia pure solo ipotetiche e debolmente indiziarie, dall’altro lascia nel lettore una sensazione inevitabile di inconcludenza. Alla fine non veniamo a sapere in realtà molto più di quanto non sapessimo sull’evento in sé, se non su dettagli secondari, anche se apprendiamo moltissimo su personaggi come Mario Manlio Rossi, forse in contatto con i servizi segreti inglesi, e sulla sua inimicizia con Eugenio Garin; e sullo scozzese John Purvis, anch’egli forse reclutato dai servizi, che nel 1938 venne a Firenze e prese appunti su molti intellettuali fiorentini, in un taccuino cui dette il nome di «Ghirlanda fiorentina» (di qui il titolo del libro).
La corposa indagine di Mecacci prende avvio da un cenno di Cesare Luporini a «cose che forse ancora non si possono dire» riguardo all’omicidio Gentile, pronunciato in una intervista radiofonica del 1989. Purtroppo non sapremo mai a cosa in particolare volesse riferirsi. Sappiamo che Luporini, legato da affetto e riconoscenza nei confronti di Gentile, si era recato a trovare il più anziano filosofo nella sua villa per tentare di dissuaderlo dall’esposizione vistosa in difesa di Mussolini e della RSI a cui si era prestato.

Gentile del resto era stato detentore di un immenso potere nella cultura italiana nel tempo del fascismo: sul piano politico, accademico, editoriale. Attraverso l’Enciclopedia italiana aveva intrattenuto rapporti con quasi tutta l’intellettualità italiana, anche non fascista, con attitudine certamente improntata a liberalità, ma che era stata in verità caratteristica della politica culturale fascista nei suoi aspetti più coinvolgenti: lo stesso atteggiamento era stato tenuto da Gioacchino Volpe nell’organizzazione degli studi storici e in maniera ancor più spregiudicata da Giuseppe Bottai, soprattutto negli anni di «Primato». Non meraviglia quindi che il meglio della nostra cultura avesse avuto, e in parte mantenesse ancora, rapporti di complessa vicinanza con Gentile. E quindi non stupisce che moltissimi intellettuali si trovino chiamati in causa in questo libro, anche se il nesso a volte sfugge: non solo Luporini e Garin, ma anche Antonio Banfi, Guido Calogero, Ranuccio Bianchi Bandinelli, e stranieri ai margini del quadro come Bernard Berenson e Igor Markevitch. E c’era anche l’immancabile Licio Gelli, che indubbiamente si trovava in Toscana e trafficava tra repubblichini e alleati.
Ovviamente si abbonda nell’accusa agli intellettuali di aver voltato gabbana (cosa che in realtà può dirsi per la stragrande maggioranza della popolazione italiana) e si asserisce più volte, sulla scorta per la verità di altri autori, che il silenzio degli intellettuali è una conferma della loro implicazione, che è argomentazione dalla logica decisamente premoderna.

L’autore fa ricorso alla metafora dei cerchi nell’acqua, «per cui si parte da un cerchio interno… da cui si irradia il movimento dei cerchi più periferici, fino ad arrivare all’ultimo cerchio, quello dei gappisti, che infine provoca l’onda distruttiva». Quindi ci sono esecutori, mandanti, complici. Se la prima categoria risulta fin dall’inizio pacifica e rivendicata, le altre due, e soprattutto l’ultima, sono invece vaghissime. Nell’impossibilità di entrare nel dettaglio di un libro molto complesso, mi limiterei a qualche osservazione di carattere generale e dettata soprattutto dal buon senso.

1. Va sottolineata la straordinaria facilità dell’atto, che non richiedeva grande organizzazione. Qui non ci troviamo di fronte ad alcuna «geometrica potenza», come nel caso Moro, che viene evocato a sproposito. Un piccolo gruppo di gappisti in «divisa» da studenti e con i libri bene in vista blocca una macchina di fronte a un cancello e fa fuoco sul passeggero. Gentile era completamente indifeso, e pur essendo personalità di grande rilievo nella Repubblica sociale non aveva alcuna scorta. Se si pensa che una settimana prima il suo segretario era stato rastrellato e fucilato da tedeschi e fascisti, si comprenderà come prima che giungesse la rivendicazione dei Gap si fossero diffuse molte voci su un regolamento di conti all’interno del fascismo di Salò.

2. Sulla questione di un atto voluto dai servizi inglesi, per bloccare la «pacificazione nazionale» perseguita da Gentile e che avrebbe potuto portare a una pace separata, c’è da obiettare in primo luogo che non si capisce perché agli inglesi dovesse risultare sgradita questa ipotesi. Ma soprattutto bisogna ricordare in cosa consistesse la pacificazione propagandata con enfasi da Gentile. Nei suoi interventi pubblici degli ultimi mesi il filosofo aveva invocato la «concordia», dopo «l’ubriacatura dei quarantacinque giorni», la necessità di superare le lotte interne «tranne quella vitale contro i sobillatori, i traditori, venduti o in buona fede, ma sadisticamente ebbri di sterminio», cioè i partigiani. Ancora nel suo ultimo intervento di rilievo del 19 marzo, inaugurando l’Accademia d’Italia e commemorando Vico, aveva invitato alla pacificazione degli animi, ma sotto la guida di Mussolini «voce antica e sempre viva della Patria» e a fianco del «Condottiero della grande Germania». I suoi toni erano certo diversi rispetto a quelli del fascismo repubblichino più fanatico, ma la linea che proponeva non differiva sostanzialmente da quella di Mussolini. Certamente gli attacchi del colonnello Stevens da Radio Londra contribuirono a fare di Gentile un bersaglio evidente, ma non bastano a indicare gli inglesi come «mandanti» dell’esecuzione.

3. Altro tema ricorrente e fantasioso in questa letteratura è quello dell’omicidio ordinato da Togliatti per «impadronirsi» della mitica «egemonia culturale» sbarazzandosi dell’ostacolo più ingente che si frapponeva. C’è qui un duplice equivoco, il primo vistoso, il secondo più sottile. Pensare che Giovanni Gentile avrebbe potuto esercitare un ruolo di rilievo nella cultura italiana del dopoguerra è del tutto irrealistico. Un’avvisaglia esplicita di ciò che attendeva Gentile si era avuta nella risposta durissima e sferzante del ministro badogliano Leonardo Severi, resa pubblica nell’agosto 1943 in risposta a una profferta di «consigli» da parte di Gentile. Ed era stata già avviata la procedura di epurazione del filosofo dall’Università. Potremmo dire anzi che la fine tragica risparmiò a Gentile un futuro di umiliazioni avvilenti.

Quanto a Togliatti, invece, va ricordato che era appena tornato in Italia con una visione molto sommaria della cultura italiana, che immaginava completamente succube dell’egemonia crociana. Si lanciò in attacchi molto violenti nei confronti di Croce, al punto da provocare quasi una crisi nel governo Badoglio (Togliatti e Croce erano entrambi ministri), che si compose solo con le scuse del leader del Pci. Soltanto nell’aprile 1952 Togliatti modificò la sua interpretazione, riconoscendo che l’egemonia culturale durante il fascismo era stata soprattutto dell’«idealismo attuale», cioè gentiliana.
4. Si trascura o si ignora una caratteristica fondamentale del comunismo fiorentino, che era il suo carattere rigidamente «proletario», nel significato che il termine poteva assumere in una città senza grandi insediamenti industriali, ma che implicava in ogni caso una connotazione fortemente anti-intellettualistica. Anche di qui una forte diffidenza nei confronti degli azionisti fiorentini, considerati intellettuali borghesi, che sarebbe proseguita a lungo nel dopoguerra. Il solo Romano Bilenchi aveva rapporti col mondo dei gappisti, di cui avrebbe ricostruito la storia. Luporini non era iscritto al partito ma sarebbe stato ammesso molto più tardi, con qualche difficoltà e per intercessione di Bilenchi.
Anche Ranuccio Bianchi Bandinelli non era iscritto nell’aprile del 1944, se pure era stimato e ascoltato nella piccola cerchia comunista. In ogni caso è impensabile che decisioni della portata dell’uccisione di Gentile potessero venire assunte dietro impulso decisivo degli intellettuali più o meno vicini al partito. Più sensato è il rinvio a un influsso dell’ambiente milanese, dove si trovava il centro e il cuore dell’attività di propaganda e orientamento del Pci nell’Italia occupata (e dove anche l’ambiente azionista era molto distante da un rapporto di familiarità con Gentile, come dimostrò l’approvazione dell’attentato, in netto contrasto con l’atteggiamento dell’azionismo fiorentino).

5. Quanto alla «eccezionalità» incomprensibile dell’assassinio di un intellettuale, va ricordato che due mesi dopo Marc Bloch verrà torturato e fucilato dai nazisti, e che un anno dopo Huizinga morirà prigioniero dei tedeschi. Nella nuova generazione di intellettuali si ricorderà che Giaime Pintor era caduto in azione il 1° dicembre del 1943 (e Gentile ne era stato informato dall’amico Fortunato Pintor) e che Eugenio Curiel, citato qui per il duro articolo Senza necrologio scritto in morte di Gentile, sarebbe stato ucciso dai fascisti nel febbraio del 1945. Gentile, in ogni caso, non può essere considerato un «normale» intellettuale dedito esclusivamente ai suoi studi: era stato ideologo del regime e ministro, grande organizzatore della cultura fascista, e aveva accettato la carica di presidente dell’Accademia d’Italia restaurata dal regime di Salò.

Forse alla fine bisognerà rassegnarsi all’evidenza e a considerare l’uccisione di Gentile semplicemente come una delle tante esecuzioni di collaborazionisti avvenute nel corso della Resistenza europea.