All’on. Stefania Giannini, ministra dell’Istruzione, Università e Ricerca
all’on. Teresa Bellanova, sottosegretaria al Lavoro

Organi di stampa e d’informazione hanno dato notizia del blocco deciso dal sottosegretario di stato Miur, on. Gabriele Toccafondi, al programma Unar contro le discriminazioni «basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere», avviato dalla ministra Carrozza. Altri episodi, istituzionalmente meno gravi, ma non meno rilevanti, hanno mostrato una campagna di settori dell’opinione pubblica contro l’introduzione della cosiddetta teoria del gender nelle istituzioni scolastiche del paese.

Vorremmo segnalare la parzialità e anche l’erroneità delle affermazioni che hanno accompagnato questi episodi. Non esiste, infatti, una “teoria del gender”. Con questa categoria, usata in modo fecondo in tutta una serie di discipline che ormai costituiscono l’ambito dei gender studies, non si introduce tanto una teoria, una visione dell’essere uomo e dell’essere donna, quanto piuttosto uno strumento concettuale per poter pensare e analizzare le realtà storico-sociali delle relazioni tra i sessi in tutta la loro complessità e articolazione: senza comportare una determinata, particolare definizione della differenza tra i sessi, la categoria consente di capire come non ci sia stato e non ci sia un solo modo di essere uomini e donne, ma una molteplicità di identità e di esperienze, varie nel tempo e nello spazio.

Proprio per la sua notevole capacità analitica e il suo carattere non prescrittivo il gender ha aperto nuove e importanti direttrici di ricerca che nella comunità scientifica e nell’insegnamento superiore di molti paesi sono ormai riconosciuti e sostenuti, a differenza di quanto accade nel nostro paese: del resto, la disinformazione di cui stiamo avendo prova in queste settimane conferma ampiamente il ritardo cumulato. In Francia, ad esempio, dal 2010 le disposizioni del Programme d’Histoire-Géographie, così come quelle dell’insegnamento di Sciences de la vie et de la terre, prevedono una trattazione articolata per sesso, genere e orientamento sessuale.

Ciò che a nostro avviso risulta più grave, tuttavia, è che tali interventi censori vengano messi in atto da un organo dello Stato non in seguito a un dibattito culturale e scientifico, ma per effetto di pressioni politico-ideologiche ispirate alle posizioni di alcuni esponenti del mondo cattolico. Anche per questo, riteniamo necessario affermare non solo la legittimità e serietà delle iniziative bloccate, ma anche l’urgenza di avviare l’educazione al genere nel sistema scolastico, riprendendo il lavoro avviato nei decenni precedenti (in particolare col progetto Polite, pari opportunità nei libri di testo), purtroppo ignorato nelle Indicazioni Nazionali per la scuola superiore del 2010.

Rifiutando di lasciare la dimensione educativa alla formazione offerta da agenzie extracurricolari, l’educazione al genere può contribuire ad una formazione civile e intellettuale più completa: essa aiuta a riflettere sugli stereotipi sessuali, che tanto facilmente riemergono nelle nostre società, a combattere i pregiudizi, a sviluppare consapevolezza dei condizionamenti storico-culturali ricevuti. Di qui l’aiuto che essa può dare allo sviluppo di una società più giusta e tollerante, aperta al riconoscimento delle differenze, nel segno di un approccio critico alle idee e ai saperi, di una lotta contro le discriminazioni sessuali e l’omofobia, e di una prevenzione efficace e capillare di schemi di comportamento violenti, frutto di stereotipi del passato incapaci di dialogare le realtà dell’oggi.

Privare la scuola pubblica di questo ruolo ci pare miope e ingiusto.

* Il Direttivo della Società Italiana delle Storiche