Una mostra a Parigi – conclusa nei giorni scorsi all’Istituto italiano di cultura dopo il lancio a Pistoia nei Dialoghi sull’uomo, dedicata alle «feste» popolari italiane viste dal fulminante occhio fotografico di Gianni Berengo Gardin – scatena considerazioni amare in questi giorni di «almanacchi, almanacchi nuovi» di leopardiana memoria, proposti dai facili imbonitori d’occasione e di governo.

CIÒ CHE il grande Ernesto De Martino aveva indagato e «razionalizzato» negli anni 50, svelando l’altra faccia della nostra cultura, il suo lato oscuro e profondo, i suoi intrecci e i suoi abissi, Berengo Gardin ce lo mostra nel suo sviluppo lungo la seconda metà del secolo scorso.
Un periodo decisivo, che quella straordinaria documentazione visiva scopre nelle sue pieghe profonde, tenero o degenerato, esteticamente goffo o sublime. Ma in ogni caso da prendere in considerazione, senza entusiasmi né moralismi facili, come del resto aveva fatto De Martino con le sue straordinarie equipe, che si avventuravano negli anni cinquanta tra le volute danzanti del tarantismo pugliese, ri-morso dal veleno culturale del ragno. Oppure nei lamenti sinuosi e martellanti elevati dalle prefiche lucane nei rituali funebri.

IN QUEL Novecento breve è passato del resto anche Pasolini, che scombussolava le carte dei giochi di ruolo tra classi e valori, e svelava intrecci e scarti inusitati, difficili persino da immaginare, prima ancora che da accettare e assimilare. Ma l’obbiettivo implacabile di Berengo Gardin, senza nulla concedere al «colore» o alla nostalgia, ritrae e isola in primo piano i portatori sanissimi di quelle ricorrenze e dello spirito che li animava e li motivava, anche davanti a fatiche e virtuosismi estremi ma necessari a raggiungere e garantire quelle Feste.

QUELLA parola è del resto cuore e anche titolo della mostra: una cinquantina di immagini scelte da Giulia Cogoli e dallo stesso Berengo Gardin (il catalogo è edito da Contrasto), che contengono oltre alla fascinazione della vista anche una sfida al nostro senso comune. Sono infatti di teatralità assoluta i protagonisti di quegli scatti, tutti intenti a mostrare la propria carica di energia, quasi sempre devozionale e talvolta scopertamente «pagana», tesi a una perfezione tecnica ed estetica, in un’esibizione fisica volta alla redenzione. Che per tradizione atavica fa capo a una fede in senso lato «religiosa», ma nel limite della situazione locale risuona anche sociale e comunitaria. Atavici sono i valori, come le mani preziosamente inanellate dei costumi sardi, e maledettamente concreta è la fatica di chi a Gubbio porta a spalla per la salita i Ceri di sant’Ubaldo, così come l’attenzione delle famiglie che vi assistono facendo «scampagnata» davanti alle loro utilitarie Fiat. Non ci sono le immagini dei Candelieri sassaresi dell’Assunta, ma appaiono nella loro perfezione coreografica, da competizione olimpica, i sudori in abito scuro dei Misteri della settimana santa a Trapani. E i cavalieri statuari di Sant’Efisio a Cagliari, di fronte alle volute aeree, vera danza celeste, dei Misteri del Corpus Domini a Campobasso. È un campionario di umanità ricchissimo, fuori da ogni quotidianità, eppure profondamente reale e vissuto.

LA DOMANDA che pone la bella mostra di Berengo Gardin, è dove sia finita dunque tanta ricchezza di vita e di cultura. Non perché quelle attitudini e abitudini dovessero riprodursi imperiture, ovviamente. Forse, a furia di «rottamazioni» e «modernizzazioni», e di slanci incontrollati in un futuro di consumi e apparenze e «concessioni», non si è fatto in tempo neanche ad affrontarla seriamente quella trasformazione. Che resta un vero nodo ancora da superare e sciogliere, come le immagini di Berengo Gardin possono indicare, con apparente discrezione ma grande fermezza. Altrimenti come stupirsi di trasformazioni epocali, di sparizione improvvisa di rassicuranti tradizioni, della nebbia fitta che circonda le scelte di vita e di politica di ognuno? In certe Feste, nella migliore tradizione, ognuno potrebbe invece scoprire un filo utile alla propria memoria e alla propria identità.