Dopo i recenti detour nella California del Nord e alle Hawai, Alexander Payne torna a casa con Nebraska, film plurinominato nella corsa all’Oscar. Letteralmente – è nato nello stato che dà il titolo a film (a Omaha) – e metaforicamente, perché in questo suo ultimo lavoro (il primo basato su una sceneggiatura originale e non scritto da lui) Payne ritrova il tocco graffiante di film come lo stesso Citizien Ruth (1996), col quale aveva debuttato al Sundance come altri registi nella corsa alla statuetta, e Election (’99) che era andato scemando nella malinconia di Sideways e nel sentimentalismo di The Descendants.

Dietro allo scope in bianco e nero un po’ prezioso (la fotografia è del collaboratore abituale di Payne, Phedon Papamichael), che ricorda il Midwest anni ’50 di Bogdanovich in L’ultimo spettacolo, omaggia il neorealismo che Payne ama tanto; alle musiche caratteristiche troppo presenti e al finale «caruccio», sta infatti un film per niente edulcorato o elegiaco. Un road movie che ha artigli affilati.

Il filiforme, elettrico, attore dei golden sixties cormaniani Bruce Dern, nella cinquina degli Oscar per il miglior attore – è Woody Grant, un vecchio ex meccanico, probabilmente alcolizzato e con lo sguardo spento. Lo incontriamo mentre, camminando a fatica lungo una statale, abbandona i confini della città di Billings, in Montana, per andare a riscuotere il milione che dice di aver vinto in una lotteria del Nebraska, a circa 1.500 chilometri di distanza. Quando il figlio David (Will Forte, un ex di Saturday Night Live) lo va a recuperare alla stazione della polizia locale, il famoso certificato vincente della lotteria è chiaramente una di quelle pubblicità truffa che arrivano nella posta e promettono soldi se compri qualcosa. David cerca di spiegarglielo e la moglie di Woody, Kate (June Squibb, già con Payne in About Schmidt), impreca che è un buono a nulla e minaccia di farlo rinchiudere in un ospizio per vecchi. Ma lui riparte alla volta del premio. «Papà», ma cosa vuoi fare di un milione di dollari?» gli chiede David quando lo intercetta nuovamente. «Un pick up nuovo fiammante e un compressore d’aria (il suo lo ha prestato a un amico che non glielo ha mai reso)», risponde lui, che non può più guidare e non lavora – la crudele misura di un American dream nell’anno 2013.

Perché Nebraska non è tanto, come ha scritto Scott Foundas su Variety, un film sul rimpianto nei confronti di un’America che non c’è più (rurale, semplice, idilliaca e altri stereotipi cari ai critici), ma un’istantanea del presente, che suggerisce tra l’altro che quell’idillio originale potrebbe anche non esserci mai stato.

Abbandonato dalla fidanzata e incapace di distogliere il padre dal suo ridicolo proposito, David decide di accompagnarlo in Nebraska. Montana e Dakota scorrono magnifici e incontaminati fuori dai finestrini della loro Subaru Outback ma nessuna conversazione e nessun paesaggio distraggono Woody dal suo milione. Nemmeno Mount Rushmore – i grandi presidenti Usa scolpiti su una montagna- significa qualcosa: «Sembra che si siano stufati prima di finire di scolpirlo». Quando Woody cade e si fa male alla testa, i due sono costretti a parcheggiarsi qualche giorno a Hawthorne, appena passato il confine del Nebraska, e il paesino da dove viene tutta la famiglia.

L’incidente di Woody crea l’occasione per un’inaspettata riunione. Kate arriva da Billings in bus e, per prima cosa, vuole andare al cimitero. Le lapidi sono semplici piastrelle di marmo appoggiate sull’erba: il padre di Woody, Tolf, è morto a sessantanni «ucciso dal lavoro della fattoria» evoca Kate. Uno dei suoi fratelli è mancato piccolissimo, di malattia, una sorella («simpatica ma zoccola», secondo l’implacabile Mrs. Grant) è morta a 19 anni, un altro fratello al fronte. Il sogno normanrockwelliano del boom del dopoguerra non sembra essere mai passato dall’unica strada che attraversa Hawthorne, Nebraska. E, se per caso lo ha fatto per un attimo, non ha lasciato granché. Anzi. A casa del fratello maggiore di Woody, dove tutti si riuniscono per il week end, i due cugini di David – grassi e con un bizzarro senso dello humour ancora con i genitori, in stato di ozio evidente, perché non hanno mai potuto permettersi di andarsene. La crisi economica ha picchiato forte qui da noi, dice la zia. Anche i giovani sembrano vecchi a Hawthorne. E, quando in paese si sparge la voce della vittoria alla lotteria, tutti diventano improvvisamente amici di Woody Grant, e iniziano a chiedere soldi. Gli stessi famigliari non si fermano di fronte al ricatto e alla rapina.

«La Corea lo ha segnato molto. Quando e tornato tutti hanno cominciato ad approfittarsi di lui. Perché era troppo buono, non riusciva a dire di no», racconta una vecchia fiamma a David, che non sapeva nemmeno che suo padre fosse stato ferito in guerra.

«Ma perché hai avuto dei figli?» chiede Davide al padre in una di quelle conversazioni «heart-to-heart» che oggi al cinema risolvono rapporti irrisolvibili da sempre. «Perché mi piace scopare e tua madre è cattolica» risponde lui. Per nostra fortuna Woody è immune al self help. Payne ama i suoi personaggi anche quando sono «orribili», forse proprio perché lo sono, come l’indimenticabile arrivista Tracy Flick in Election. Alla fine del film, il certificato della lotteria era e rimane un pezzo di carta straccia. Invece del milione a Woody danno un cappellino di plastica, con scritto sopra vincitore. Ma il suo premio lo vive lo stesso, anche se dura solo quanto la strada principale di Hawthorne.