Giusto vent’anni fa, quando Antonio Bassolino divenne sindaco vincendo il duello con Alessandra Mussolini, per l’urbanistica napoletana cominciò un’indimenticabile età dell’oro. Quando fu restaurata e pedonalizzata la piazza del Plebiscito, Donata Righetti, su La Voce diretta da Indro Montanelli scrisse: «Napoli la deforme, Napoli l’incurabile, la disperata, il recinto ribollente, amarissimo del degrado. E adesso, di colpo, Napoli la rinata, Napoli la sfolgorante. La sue sterminate difficoltà sopravvivono, tutte. Ma da qualche settimana questo luogo di fastose meraviglie ritrovate sembra somigliare pochissimo alla patria dei De Lorenzo e dei Pomicino. Si intuiscono le emozioni di un riscatto non solo di superficie ma di coscienze».

Furono raggiunti in effetti risultati straordinari: la migliore tutela del centro storico; la salvaguardia e la valorizzazione di ogni residuo spazio verde; la definizione del progetto Bagnoli, dove era stata chiusa l’acciaieria dell’Italsider; il massimo potenziamento della rete metropolitana; la formazione di un ufficio per la pianificazione urbanistica di eccellente qualità che curò la formazione del nuovo piano regolatore.

Ma non durò molto. Già all’inizio del secondo mandato cominciò lo sbandamento. In “Napoli non è Berlino”, Isaia Sales ha cercato di decifrare l’enigma Bassolino. Era stato il sindaco italiano più celebre nel mondo, candidato carismatico alla presidenza del Consiglio, ma per ingraziarsi gli ambienti che contano a un certo punto cominciò a cedere a un mediocre opportunismo, e finì travolto dalla vergogna dei rifiuti. Ben oltre le sue responsabilità, fu additato come “emblema del malgoverno” e coinvolto in un giudizio catastrofico sulla città. Lo stesso giudizio esteso a Rosa Russo Iervolino, dopo di lui dal 2001 sindaco per dieci anni.

Poi è stata la volta Luigi De Magistris. Alle elezioni amministrative del 2011, il candidato del centrodestra Gianni Lettieri indicò fra i primi obiettivi del suo programma l’eliminazione del piano regolatore, che per De Magistris invece non andava toccato. E sorprendentemente vinse De Magistris, con più del 65 per cento dei consensi. Ne fui felice, pensai che a Napoli tornassero le belle giornate. Il nuovo sindaco partì con l’idea di “scassare”, cioè di liberare la città dal consociativismo e dalla stagnazione degli anni targati Bassolino-Iervolino. Ma è stata una breve illusione, sono cominciati subito i passi falsi e in due anni è stato sperperato un importante patrimonio di disponibilità alla partecipazione e al cambiamento. Le cronache giornalistiche hanno diffusamente raccontato: a) l’irrisolta crisi dei rifiuti inviati agli inceneritori del Nord Europa o alle discariche di altre regioni, in cronica carenza di impianti, con la raccolta differenziata che a dispetto dei proclami non riesce a decollare; b) lo scandalo del progetto Bagnoli, dove è continuata una gestione separata e inconcludente, e un’interminata bonifica, fino a quando la magistratura ha sequestrato le aree dell’ex Italsider, ipotizzando il reato di disastro ambientale; c) il lungomare frettolosamente pedonalizzato, non sostenuto da un’idea di complessiva riorganizzazione della Riviera di Chiaia; d) la mancata dismissione delle società partecipate che continuano improduttivamente a drenare risorse.

A tutto ciò vanno aggiunte la dissoluzione degli uffici urbanistici e, a un certo momento, addirittura la disponibilità a privatizzare un brano del centro storico.

Per quanto possa valere, ma qualcosa vale, la progressiva degradazione di Napoli è stata certificata dall’indagine del dicembre 2013 de Il Sole 24 Ore sulla qualità della vita. La provincia di Napoli sta all’ultimo posto, il centosettesimo, l’anno scorso era penultima. Le province delle altre grandi città sono classificate come segue: Bologna terza, Firenze settima, Milano decima, Roma ventesima, Genova ventiquattresima, Torino cinquantaduesima, Bari novantesettesima, Palermo centoseiesima. All’inizio degli anni 2000, quando ancora rilucevano gli effetti del primo Bassolino, Napoli stava a metà classifica. Da allora è cominciata la discesa verso l’abisso.

Alla più recente rovina di Napoli ha certamente contribuito la crescita patologica della conurbazione che si estende a tutta la provincia e a parti delle confinanti province di Caserta e Salerno. Era la corona di spine descritta da Francesco Saverio Nitti nel 1903, che dopo un secolo ha assunto connotati spaventosi. Più di cento comuni con densità insediativa senza confronti, una frammentazione amministrativa che ha favorito situazioni di insostenibile spreco di territorio (basti pensare alla dissennata sovrabbondanza di aree per attività produttive) unite al permanere di insoddisfatti bisogni di alloggi, di attrezzature e servizi. Qui si è consumata la tragedia della terra dei fuochi che negli ultimi tempi ha assunto valenza nazionale.

napoli foto dino fracchia

Su la Repubblica di Napoli, Antonio di Gennaro ha descritto «l’improvvisa, dolorosa consapevolezza del saccheggio territoriale, dei crimini che sono stati commessi contro l’ecosistema e il paesaggio, la non tollerabile incertezza circa gli effetti sulla salute delle persone; tutto questo ha finito per funzionare come crogiuolo di nuove esperienze sociali e politiche». Ma anche come fomite di risentimento e di rivolta proprio di chi si sente tradito dalla città (la città come il Palazzo del potere e del privilegio).

Forse è questo l’aspetto più grave della crisi che travolge Napoli: l’essere negata come capitale. I comuni della cintura non sono più in sudditanza ma tendono ad assimilare il capoluogo in uno scenario di illegalità e di barbarie. Mentre non c’è traccia di una cultura pubblica, napoletana o nazionale, capace di far fronte alla rovina.

 

Qualcuno si illude che una soluzione possa trovarsi nella Città metropolitana, riferendosi alla proposta del governo approvata a fine dicembre per l’istituzione del nuovo ente, che dovrebbe sostituire le province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. A parte il caso di Roma Capitale. Nell’insieme, circa un terzo della popolazione italiana. Ma quella in discussione non è una riforma. La Città metropolitana non può nascere come una Fenice dalle ceneri delle province condannate a morte con giudizio sommario, fra cori di giubilo insensato. Non è una riforma, è un guazzabuglio determinato dall’unico obiettivo del contenimento della spesa pubblica, e del tutto indifferente all’efficienza dei poteri locali nell’erogazione dei servizi o alla qualità della rappresentanza delle comunità interessate.

La proposta governativa prevede che a capo della Città metropolitana sia il sindaco del comune capoluogo, e un consiglio metropolitano formato dai sindaci dei comuni della provincia. Tutti a titolo gratuito. Un espediente inutile (anche dal punto di vista del risparmio), anzi dannoso, che soprattutto a Napoli agirebbe come acceleratore della disgregazione. Ben diversa la filosofia ispiratrice della legge di riforma degli enti locali del 1990, una riforma autentica, bloccata dalla mancanza di coraggio.

Si prevedeva una città metropolitana generata dalla scomposizione del comune capoluogo e dalla formazione di un una nuova figura istituzionale – con numerosissime competenze, dalla pianificazione del territorio ai trasporti, dalla tutela dell’ambiente alla difesa del suolo, dalla valorizzazione delle risorse idriche alla distribuzione commerciale – e con potenzialità di riforma non solo amministrativa ma politica e sociale. Le sole condizioni che a Napoli potrebbero consentire il recupero di una decente normalità.

Concludo con Giorgio Bocca: «Napoli muore: ma siccome muore da troppi anni, nessuno ci fa più caso».