I fattori che hanno promosso e portato a termine il cambio di regime in Egitto sono stati la piazza, l’esercito e la Fratellanza musulmana, che ha vinto le elezioni e ha governato dopo la caduta di Mubarak sotto l’urto delle manifestazioni e dopo l’interludio del governo di una giunta militare in attesa del compimento del processo elettorale. I tre fattori sono ritornati in campo in questi giorni di scontri con un risultato diverso.

L’esercito non ha mediato come allora fra la piazza e il potere assicurando in fondo la legalità della transizione. Ha risolto il conflitto deponendo il presidente eletto appena un anno fa in una consultazione decisa sul filo di lana a favore di Mohammed Morsi ma che nessuno allora contestò. Ci saranno pure dei codicilli giuridici su cui discutere, e c’è la massa d’urto della Piazza Tahrir edizione 2013, ma intanto le forze armate hanno cancellato la transizione che esse stesse avevano consentito, reso possibile e avallato.

Ci sarebbe un quarto fattore ma esso non ha la stessa evidenza dei primi tre: le influenze esterne, che possono essere attive, dirette, ma che possono essere anche di semplice non intervento per favorire una soluzione voluta. Influenze esterne ci furono nel 2011 (l’abdicazione di Mubarak fu imposta, suggerita o autorizzata da Washington) e nel 2012 (i finanziamenti del Qatar e di varie fondazioni ai partiti islamisti durante la campagna elettorale e gli appoggi, senza molto successo, di componenti varie del mondo occidentale ai partiti dell’area laico-liberale). Su come hanno agito le influenze esterne in questa congiuntura sono possibili allo stato attuale solo illazioni. Di sicuro, Qatar e Arabia Saudita non hanno difeso Morsi e gli Stati Uniti non hanno impedito il colpo di stato dell’esercito.

La coalizione impropria esercito-piazza si è sostanzialmente riprodotta. Non è detto però che la composizione e gli obiettivi degli oppositori che hanno sfidato il potere nel giugno-luglio di quest’anno siano gli stessi del 2011. Quanto alla convergenza fra gli americani e gli insostituibili alleati del Golfo, il futuro prossimo dirà se essi si trovino più in sintonia oggi rispetto a quando gli uni e gli altri avevano concesso la loro fiducia (in prova?) alla Fratellanza.

Così dando l’impressione che nelle condizioni d’emergenza in cui si trovava il Nord Africa il “modello islamico” – qualunque cosa significhi oggi questa locuzione – fosse ritenuto l’esito più consono ai desideri e agli interessi di chi della “rivoluzione”, non sembri un paradosso, apprezza soprattutto la difesa dello status quo.

I partiti islamisti in Egitto (più ancora che in Tunisia, dove hanno formato un governo di coalizione) hanno avuto di colpo troppe responsabilità in una situazione difficilissima per chiunque e resa più impervia dalle sciagurate “condizionalità” del Fondo monetario internazionale per alleviare la crisi economica. Morsi ha deluso anche chi lo aveva sostenuto: per colpa dei suoi limiti personali ma anche dell’opposizione senza quartiere di forze che, nettamente sconfitte nelle elezioni, hanno avuto come unico fine il fallimento del governo non fermandosi neanche davanti al baratro.

L’Egitto non aveva gli anticorpi di Turchia e Brasile per resistere in qualche modo agli effetti deleteri della “cultura della protesta”, come la definisce Olivier Roy. La tragedia è che la “debolezza” di Morsi e dell’Egitto non fa che confermare che certe gerarchie di potere non sono cambiate e non possono essere cambiate. Le belle parole che si spendono sui diritti dei popoli scadono a pura retorica. Il mondo subalterno – paesi e classi sociali – è schiacciato sotto il peso obbligato di ciò che Nicholas B. Dirks, storico dell’India, chiama “modernità coloniale”: un misto di capitalismo, state-building e parlamentarismo dentro la giurisdizione imperiale.

L’aggravante è che la rappresentatività delle istituzioni resta sub judice. Fatte le debite distinzioni, è così nell’Egitto di Morsi come è avvenuto nell’Algeria vent’anni fa e nel Cile in quell’altro 11 settembre da non dimenticare.