C’è chi sostiene che il nuovo romanzo di Violetta Bellocchio sia una distopia, chi una denuncia sociale, chi un tributo alla cultura nerd degli ultimi vent’anni. Forse La festa nera è prima di tutto qualcos’altro, e lo stencil riportato in copertina – una versione del simbolo alchemico del mercurio dalla resa grafica azzeccata – ne rappresenta il necessario avvertimento. Il volumetto color ruggine appena uscito per Chiarelettere (pp. 176, euro 15) all’interno della collana Altrove, dedicata alle narrazioni del futuro e diretta da Michele Vaccari, ha infatti tutta l’aria di quello che nel gergo di strada si chiamerebbe un regolamento dei conti. Per comprenderne la portata non si può prescindere dal modo in cui l’autrice ha deciso di tornare al discorso pubblico dopo un periodo di silenzio e proprio nel momento in cui una parte dell’editoria italiana ha mostrato un certo interesse per «il fantastico».

LA FESTA NERA è la vendetta servita fredda, la carta che dopo quindici anni di lavoro come scrittrice e giornalista Bellocchio rovescia a sorpresa sul tavolo dei giocatori di un mansplaining destinato a trasformarsi in un copione sempre meno divertente, la gogna dai toni raccapriccianti che più spesso sacrifica le donne quando hanno la pretesa di parlare. Non è esattamente un caso se ne La festa nera, a sei mesi da un terribile shaming che li ha devastati per il servizio sbagliato, tre reporter, Ali, Misha e Nicola, tornano alla macchina da presa per raccontare il mondo dopo l’apocalisse, un disastro qui situato su un crinale pubblico privato che annoda a filo doppio le vicende dei tre alle sorti dell’umanità. Siamo nel 2026, futuro tutto sommato prossimo, vicino anche perché ambientato in un’Italia familiare a molti, ma non per questo meno cinematografica del paesaggio oltre oceanico o extraterrestre a cui ci hanno abituato la fantascienza e la televisione on demand.

La statale 45 che collega Piacenza a Genova – campi impolverati, fabbricati industriali dismessi, alberi di cui nessuno conosce mai il nome – diventa anzi lo scenario perfetto per un insolito itinerario nella Val Trebbia, «un tempo sede di fricchettonaggio andante a vari livelli» ora luogo d’elezione per le tappe di un documentario ancora tutto da girare: cinque comunità nate attorno a una manciata di irriducibili ossessioni da cui i tre protagonisti, a costo di rifarsi una reputazione, corrono il rischio di essere divorati vivi.

UNA FORD FIESTA carta da zucchero, dieci penne biro, cinque stecche di Merit, i cellulari tutti in una busta. È Nicola che tiene la camera, Ali è quella degli auricolari, Misha indossa lenti a contatto speciali che aggiungono alla ripresa «una prima persona più vicina» ma ha ancora il filo del microfono che le scende giù per la schiena. Il vecchio e il nuovo stanno insieme all’esperienza di un presente che svanisce sotto i piedi e Bellocchio si diffrange tra chi guarda e chi si fa guardare, in una voce che è troppa persino per una «piccola nichilista mezzosangue» come Ali – personaggio che si potrebbe definire intersezionale, lesbica, non bianca, testimone dal riservato cinismo a cui è affidata la narrazione della storia e di cui ci è dato sapere poco, a parte il suo essere incline ad assorbire quello che ha intorno come una spugna, sonniferi inclusi. La particolarità della prima persona proposta da Bellocchio sembra stare proprio nella sua capacità di eccedere i personaggi, sconfinare continuamente fuori campo, intercettare la nostra voce collettiva interiore, «cerchiamo soltanto lo shock facile, la ferita di superficie, l’applauso casuale di un pubblico privo di qualsiasi gusto o sensibilità».

UN FRASEGGIO irresistibile per la spavalderia con cui ha frullato le parole di tutte le canzoni del mondo ai dialoghi dei nostri film preferiti e ne ha tratto una lingua nuova, impertinente, così vicina alle profezie che abbiamo in testa: «è il gioco; stai al gioco. Aspetta, capisci, paga, dai il resto, voltati». Non manca per niente la vita di prima, se al posto dei monolocali deserti ci sono cucine comunitarie con le presine unte e i bicchieri scompagnati, parcheggi sterrati dove di notte si suona davanti a una catasta di legna che brucia. Alla fine del mondo di Bellocchio c’è l’autorganizzazione, al netto del culto della personalità, della coltivazione dell’odio e della fede nell’anestesia, si condivide tutto, persino le pasticche si spezzano coi denti. E non si sa bene come né perché, ma è un bel sollievo per una storia che non è quella di Nicola e forse non è nemmeno quella di Ali, ma è di sicuro la storia della ragazza più sola della terra.

Tempo fa qualcuno voleva istruire Violetta Bellocchio su cosa significa raccontare la realtà, o forse sperava solo che restasse zitta. Violetta Bellocchio è tornata con un personaggio capace di sopravvivere all’ultima pagina. La ragazza bianca che tutti sopportano quando non riescono ad amare si chiama Misha Fontana, ha «la faccia di una stella del cinema e la mente di una criminale». Potrebbe capitarti di vederla entrare in una piscina piena di bambini, gridare ora siete tutti figli miei, un attimo dopo fare il dito medio alla telecamera dicendo guardatemi morire. È la frontwoman bionda con la fissa della verità, che se va male si riduce peggio e a ogni fermata scambia le scarpe con qualcun altro. Quando è felice canta Beyoncé, ma in bocca a lei suona come un blues.