«Occorre cambiare subito la Bossi-Fini: non si può andare avanti così». Monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della fondazione Migrantes – organismo della Conferenza episcopale italiana che si occupa di immigrazione –, è perentorio: la legge non funziona, va modificata. E non solo la Bossi-Fini, ma secondo il vescovo è l’intera normativa europea in tema di immigrazione ad essere inadeguata: «Lampedusa – isola che fa parte della “sua” diocesi – è il confine dell’Europa, oltre che dell’Italia, e a Lampedusa si vive la contraddizione di persone e famiglie aperte alla solidarietà e all’accoglienza in uno Stato e in un’Europa che invece chiudono le porte».

Ieri, in occasione della conferenza stampa di presentazione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebrerà domenica prossima in tutte le parrocchie e in piazza San Pietro con il messaggio di papa Francesco («Migranti e rifugiati: verso un mondo migliore»), i responsabili del settore immigrazione della Cei hanno rivolto un severo monito alla politica, sia italiana che europea, incapace di affrontare la questione se non in termini di sicurezza e di difesa dei “sacri confini”.

«Non si può affermare che l’immigrazione è una priorità e poi negarlo nei fatti, nei procedimenti e nei processi politici, per questioni di interessi o per una mediazione che si raggiunge mai», ha detto monsignor Giancarlo Perego, direttore della Migrantes. «Bisogna cambiare subito la legislazione europea e italiana e decidere di investire più in integrazione che in sicurezza». Oggi invece si spende la maggior parte delle risorse per i Cie e i respingimenti e per «l’integrazione – continua – restano le briciole». Per Perego, favorire l’integrazione significa investire in «servizi sanitari» e «scuola», ovvero «i luoghi nei quali si costruisce sicurezza sociale».

La causa? Anche la crisi. Ma è un alibi, anzi una scusa, aggiunge il direttore della Migrantes: «Ci si nasconde dietro alla crisi per diminuire la qualità della nostra democrazia. Basti pensare semplicemente a come ci sia stata una caduta della tutela dei diritti dei lavoratori. I sette operai cinesi arsi vivi nell’azienda tessile di Prato ne sono una testimonianza, gli sfruttati delle campagne dal nord al sud Italia o nella cantieristica ne sono un segno. La crisi sia letta anche guardando all’immigrazione, solo così se ne può uscire».

I numeri ricordati dalla Fondazione Migrantes sono eloquenti: in Italia 1 lavoratore su 10 è un immigrato; i lavoratori immigrati «sotto-inquadrati» sono il 61% contro il 17% dell’Europa, ovviamente senza tener conto di quelli in nero; le retribuzioni degli immigrati sono inferiori a quella degli italiani del 24,2%; 100mila infortuni sul lavoro denunciati riguardano lavoratori immigrati, con una percentuale doppia e talora tripla rispetto a quella degli italiani, senza contare i cosiddetti «infortuni invisibili»; nelle scuole italiane ci sono 800 mila studenti stranieri, il 47% dei quali di seconda generazione; i matrimoni misti hanno raggiunto quota 400mila, con un incremento di 24mila ogni anno.

«La politica deve avere coraggio», aggiunge monsignor Montenegro. «Nessuno può fermare il vento e la storia. Non si può pensare improvvisamente di chiudere le porte. Perché la storia e la geografia ci dicono che quelle persone hanno bisogno di vivere e di sopravvivere. La politica deve prenderne atto e smettere di affrontare questo fatto semplicemente come una emergenza».