Nella scrittura di Giorgio Falco c’è qualcosa di fisiologicamente perturbante. Un senso di compressione esercitato dalla scrittura stessa sul nostro sguardo, un incedere della frase che non ha nulla di neutro ma esiste come un vero e proprio contrapporsi allo sguardo medesimo. Quello che Falco, una riga dopo l’altra, riesce a far accadere è una particolare (rarissima) esperienza: in ogni sua pagina il tempo è pressione, percussione, tamburo battente. Fin da Pausa caffè, il suo esordio del 2004 con Sironi (una raccolta di racconti dilagante e autoptica, splendida intuizione editoriale di Giulio Mozzi ai tempi di una collana indispensabile come fu Indicativo Presente), e passando per L’ubicazione del bene, pubblicato nel 2009 da Einaudi Stile Libero (un libro in cui le case sono le declinazioni concrete di un’allucinazione di salvezza), si ha la sensazione che Giorgio Falco sia dominato da una duplice ossessione: da un lato dal bisogno di ricomporre per via letteraria una genesi del contemporaneo, vale a dire di quella cosa che chiamiamo presente; dall’altro dal desiderio di rendere conto nella lingua di ogni microfenomeno umanamente percepibile – gli infrasuoni, l’ultravioletto, le più minuscole increspature dell’esistente.

La combinazione di queste due ossessioni genera una scrittura famelica, un impulso linguistico di continuo all’inseguimento delle cose, della loro forma, della materia che le costituisce, di come il tempo in modo naturale le disgrega.
La gemella H, pubblicato di nuovo da Einaudi Stile Libero (pp. 360, euro 18. 50) è un romanzo dominato per intero dalla persistenza dello sguardo. Dalla sua ostinazione percettiva che ininterrottamente, svelato il mondo nella lingua, si trasforma in trauma e in incanto.
A partire da una curiosità semiotica simile a quella che spinse Victor Klemperer ad annotare e a esaminare in tempo reale la progressiva nazificazione delle infrastrutture socioculturali tedesche usando come cartina di tornasole le trasformazioni del linguaggio quotidiano, Falco racconta la storia della famiglia Hinner attraverso e oltre il Novecento, dalla cittadina immaginaria di Bockburg, in Baviera, dove le gemelle Hilde e Helga nascono nel 1933 – quaranta giorni dopo la nomina a Cancelliere del Reich di Adolf Hitler –, al trasferimento a Merano, a Milano e poi a Milano Marittima, dove Hans, il padre delle gemelle, perduta la moglie, da giornalista che era si reinventa albergatore, o meglio ancora imprenditore della vacanza, gestore del divertimento estivo («la somma delle esistenze altrui è la nuova vita di Hans Hinner»).

Raccontando come l’ordinario reitera se stesso attraverso la coscienza di ciò che si possiede («Abbiamo il frigorifero elettrico, il refrigerante è al freon […]Abbiamo l’aspirapolvere, risucchiamo briciole, capelli, insetti […]Abbiamo il ferro da stiro a vapore, l’asciugacapelli che mi sorprende ancora […] Abbiamo la lavatrice e la lavastoviglie, il tostapane automatico») e nella certezza di ciò che non si diviene (magnifica l’invenzione letteraria dell’Uomo di Lenhart e della sua modestissima infelicità da scapolo quando appena pagato l’affitto «si sente sprofondare in tutto ciò che non è ancora diventato, e forse mai sarà»), La gemella H collauda un’ipotesi stupefacente: ciò che siamo, le forme del nostro pensiero, il modo in cui viviamo è filiazione diretta delle logiche totalitarie.

Quando terminata la Seconda guerra mondiale la famiglia Hinner muove verso l’Adriatico e l’Europa si ricompone trasformando la lesione del conflitto in una regola talmente intessuta nelle cose da non venire più percepita come tale, ecco ciò di cui si è consapevoli: «Milioni di morti e siamo ancora qui, pronti a nuovi oggetti, a criteri di comportamento volti alla concupiscenza delle cose. Ridimensionata la visibilità dell’ideologia – ora diluita sotto ogni traccia – resta la volontà di vivere secondo quelle stesse dinamiche totalitarie applicate ai rapporti lavorativi e familiari». Nel passaggio dalla Germania all’Italia, dal giornalismo all’imprenditoria, Hans Hinner sperimenta la felicità gelida del capitale, quella sua straordinaria euforia assiderata che incessantemente trapela – in ognuno con una diversa intensità – come una delle nervature del contemporaneo. Il transito dalla guerra alla pace permette un’ulteriore consapevolezza: la messa in torsione dell’etica, il suo sfiguramento proprio del conflitto bellico, non è qualcosa che termina con la fine della guerra ma prosegue in forme più attenuate e diluite, socialmente compatibili. La miseria – lo chiarisce il comportamento di Helga quando vuole che il suo fidanzato venga assunto come cuoco presso l’hotel di famiglia – è legittima, integrabile e integrata, democraticamente disponibile: è il famigerato mezzo giustificato dal fine.

È una folgorazione: non siamo altro che un processo di adattamento che necessita, per conservarsi, di una serie di travestimenti retorici funzionali a contenere l’incontenibile; al sicuro dalle incandescenze permaniamo in una tiepida vita di penombra che riusciamo persino a immaginare come un rasserenante tepore luminoso. Facendo slittare lo sgomento in eccitazione viviamo in un’inesauribile legittima difesa.
Leggendo La gemella H ci si rende conto che Giorgio Falco ha compreso qualcosa di midollare – superficie e abisso insieme, epoca e istante, strutture socioeconomiche e fisiologia, la microfisica del potere e dell’impotenza (di quella sperimentata proprio malgrado e di quella complice), il millenario tragicomico accumulo del respiro nei petti, l’immenso equivoco su cui tutto si sostiene – e che questa sua comprensione plastica delle cose è prima di tutto istinto, intelligenza viscerale, e solo un attimo dopo cognizione, cultura, pensiero boreale. Attraverso il modo in cui Falco fa esistere la realtà sensibile comprendiamo che l’immagine dello scrittore-microscopio – colui il quale bloccato il fenomeno sotto il vetrino della lingua lo esplora nelle sue componenti più minute – conosce un’ulteriore evoluzione. Come se sotto al microscopio fosse montato un piccolo tapis roulant su cui senza sosta scorre la metamorfosi della materia umana (corpo, spazio, pensiero, piacere, rabbia, immaginazione, biologia), all’attitudine verso lo studio dell’impercettibile Falco unisce una straordinaria capacità balistica: il fenomeno è mobile, spudoratamente cangiante, e dunque per dargli esistenza la lingua deve compiere un movimento al contempo verticale e orizzontale, inabissarsi divagando, deve pedinare il disordine: deve, letteralmente, stare al passo.
«Le voci della sabbia s’intersecano, piccole porzioni di mondo contengono tutto ciò che serve: la ditta va benissimo, ha dieci persone sotto di sé, prendi una sigaretta delle mie, è un capo, è nata la figlia, inizia a perdere i denti, la moglie gli vuole bene, è morta la nonna, i soldi non sono importanti, è diventato prete per fame, ho il serbatoio pieno, quella lì è bella di faccia, chiudo gli occhi per finta».

La scrittura di Falco è un presente battente. Un recettore che capta, stenografa, elenca, preda, restituisce. Pur lavorando con una cronistoria paratatticamente ordinata, Falco lascia evaporare il cronos estraendo da ciò che appare come tempo logico l’assurdo naturale, la discrepanza, l’anomalia: il trauma e l’incanto del kairos.
Con La gemella H – con Hilde «ribelle conformista», con Helga per la quale «la scrittura è ancora il momento delle scuole elementari» – riceviamo non solo uno strumento di decifrazione del ventesimo secolo, dunque una semiotica culturale di qualità inestimabile, ma soprattutto un racconto al calor bianco della nostra origine: un romanzo persecutorio che stringe d’assedio l’umano, lo stana e lo perquisisce.