Già nel 1995 Michael Glawogger era stato nominato per l’Oscar come miglior film straniero con l’opera seconda, Die Ameisenstrasse, commedia il cui titolo significa La strada delle formiche. Il regista austriaco morto appena 54 enne nella notte di mercoledì a causa della malaria contratta in Liberia, vi raccontava un micro-cosmo che si faceva metafora del macro-cosmo nel suo paese di origine. La storia di un condominio situato nella via del titolo e del tentativo del nuovo proprietario, che aveva ereditato lo stabile da uno zio, di sfrattare gli inquilini per garantirsi maggiori introiti. Una variopinta combriccola di diverse nazionalità, età e professioni, ognuno con i propri tic e manie, di cui l’emergente filmmaker plasma figure tragicomiche.

Seguendo le leggi del tipico humour nero viennese, il regista infila una bella serie di ritratti che si trovano ancora oggi nelle strade, nei caffè o sui mezzi pubblici della capitale austriaca. Glawogger ha saputo mettere a fuoco due caratteristiche base dei suoi concittadini: la disciplina assoluta nei confronti dell’autorità – anche nelle lotte e nella resistenza e lo spirito nostalgico rivolto al (glorioso) passato. Ciononostante nel film i condomini riescono a contrastare quelle stesse autorità, azzerando le differenze anche col benestare dei morti che ci sono stati strada facendo, perché è proprio la morte a renderci tutti eguali…

L’avevo conosciuto allora, trentaseienne ansioso di uscire dai confini nazionali che sentiva sempre un po’ stretti. Due anni prima aveva firmato l’opera prima, Krieg in Wien (War in Vienna) assieme a Ulrich Seidl, ma Glawogger aveva sin dall’esordio cercato una via per sensibilizzare l’altro (il pubblico) su quanto lo circondava, combattendo le ingiustizie, denunciandole. Basta pensare alle immagini, cruente, filmate in giro per il mondo indagando le condizioni di lavoro spesso disumane in attività più o meno estreme nell’osannato e pluripremiato Workingmen’s Death (uscito nelle sale italiane nel 2007).

Ma cosa stava facendo il 54enne documentarista in Liberia? Era partito il 3 dicembre scorso per un viaggio intorno al mondo che sarebbe durato un anno intero, senza meta e senza aspettative, come annunciato dal titolo sul DokuBlog (pubblicato contemporaneamente su due quotidiani online, l’austriaco derStandard.at e il tedesco Sueddeutsche.de, sito della Süddeutsche Zeitung) in cui avrebbe narrato con scadenza bisettimanale alcune delle impressioni raccolte lungo il tragitto. Prima tappa in Croazia, a Medari, mentre l’ultima era a Harper, Liberia appunto, dopo aver sostato tra l’altro, in Macedonia, Italia e Mauritania.

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Nei testi postati sul blog sotto i titoli Groß (Grande) e The crocodiles aren’t greener on the other side (I coccodrilli non sono più verdi dall’altra parte) il 18 aprile, racconta la storia di un uomo sconosciuto, bianco, che sta attraversando quel paese africano. Fino a che punto può essere definita autobiografica la frase che mi è balzata subito agli occhi? «Eppure un antico pensiero infantile risuonava nella sua testa come una canzone: il mondo è così grande, ci sarà pure da qualche parte un posto in cui nascondersi affinché nessuno lo trovi…».

Il percorso non era stato fissato in anticipo ma avrebbe seguito l’intuito del regista, gli eventi e le persone incontrati via via per filmare (con una cinepresa digitale, una in super-8 e diverse altre video-camere e smartphones) il fascino dell’istante: questo era il titolo provvisorio dell’ «esperimento documentaristico» cofinanziato da Zdf, Orf e altri sette enti promotori tra Germania e Austria, Der Zauber des Augenblicks.