Si potrebbe parlare di «terremoto» per quanto sta avvenendo nel capoluogo abruzzese, in una sequenza drammatica di accuse e incriminazioni, dimissioni e loro ritiro, e soprattutto di reati che ricordano il più spietato cattivo gusto (come le famose risate di gioia del costruttore la notte stessa del sisma) nei riguardi di una città martoriata e dei suoi abitanti. Ma il terremoto, quello vero e incontrollabile portato dalla natura, come tutti sanno c’è già stato cinque anni fa, e ha sbriciolato assieme a un patrimonio inestimabile di antichità e di vita civile, anche la resistenza di tutti coloro che all’Aquila ci sono nati, cresciuti, formati, e affezionati.

Deve essere molto difficile per loro, oltre che crudele e sgradevole, misurarsi con una situazione che, nella precarietà divenuta sistema, offre solo la certezza della corruzione contro ogni rassicurazione. È giusto allora cercare altri percorsi paralleli, per elaborare quel lutto, e trovare la forza di «rinascere» davvero. Ne offre uno, come sarebbe del resto nelle sue doverose caratteristiche, il teatro. Un teatro libero e autonomo (e pochissimo finanziato) che è sorto subito pochi giorni dopo quella tragica notte, a pochi chilometri dal centro storico aquilano, a San Demetrio (e che pare sia costretto ora a spostarsi, perché il campo di calcio che ospitava una delle prime tendopoli, è stato ora restituito al gioco, e la contiguità non può essere stretta come prima). Intitolato ai «Nobelperlapace» che lo inaugurarono in una sorta di anti-G8 (guest star un molto coinvolto George Clooney, come qualcuno ricorderà), il teatro programma da allora delle vere stagioni, dedicate soprattutto a un tipo di teatralità poco di intrattenimento e più di coinvolgimento. Ora il creatore di questo piccolo miracolo, Giancarlo Gentilucci, ha appena presentato una sua creazione dedicata proprio al nodo (drammatico e drammaturgico) del binomio distruzione/ricostruzione.

Gentilucci, che ha alle spalle un passato importante nel campo delle arti visive e di collaborazioni con artisti molto significativi di questi decenni, ha voluto puntare con il suo gruppo Arti e Spettacolo, sul tema delle città morte, o distrutte per cause naturali o per la guerra o per altre vicissitudini antropologiche e religiose. Ha commissionato il testo a Roberto Melchiorre che ha raccolto ne Il melo selvatico i casi di città diverse, ma accomunate dal fatto di essere state distrutte. Senza inutili patetismi, ma con un tono soffice che all’inizio mima la fiaba, ci si inoltra nei racconti di due figure maschili, una coppia che evoca archetipi classici come Don Chisciotte e Sancho, ovvero Don Giovanni e Leporello, ma anche un doppio punto di vista che davanti al panorama della morte non riesce a ricomporsi. Attorno a loro, un coro di donne guidato da Tiziana Irti, evoca passi di danza, quasi alla ricerca di un codice di movimenti che siano compiuto «comportamento».

Proprio la presenza di quel coro prevalentemente femminile, fa sì che dalla fiaba si passi con naturalezza a un tono da tragedia classica (tutti possono avere nella memoria e nel cuore le Troiane euripidee dopo la distruzione della loro città), e quindi ancora all’apologo che indica i mali e le possibilità del loro rimedio. Il tono è leggero, coinvolgente ma non didascalico. Gli dà spessore la partitura musicale appositamente composta da Sandro Paciocco, che monta prima sulle rovine bretoni dell’antica Ys, poi della maya Tikal e infine della cambogiana Angkor. I due uomini sulla scena non trovano soddisfazione né progetto in nessuna di quelle realtà distrutte, ma mostrano chiaramente la necessità di cambiare prospettiva, se davvero si vuole ricominciare a vivere. Il tutto in termini molto comprensibili, perché giustamente Gentilucci, in un contesto come questo, antepone la comprensibilità alla fuga nella poesia del mistero.

È «poetico» proprio quanto una creatura umana riesce a far maturare nella propria coscienza, grazie alle emozioni e ai suggerimenti che dal palcoscenico provengono. Poi, come nella realtà aquilana di questi giorni, la ricostruzione, interiore ed esterna, ognuno deve intraprenderla da sé. Appena stimolato dal racconto, dal mito e dalle fascinnazioni della memoria.