Il palazzo da cui esattamente una settimana fa la polizia ha cacciato i circa mille rifugiati – poi in parte accampati con donne e bambini nelle aiuole della sottostante piazza Indipendenza e cacciati anche da lì con gli idranti tre giorni fa – è ormai vuoto. O meglio, dei nove piani – più due sotterranei – dell’edificio razionalista costruito negli anni Cinquanta a non più di cento passi dalla Stazione Termini resta vivo solo il supermercato al piano terra.

Attraverso le finestre della balconata rimaste aperte, da dove i bambini eritrei e etiopi si sporgevano durante il blitz per fare linguacce ai poliziotti «caritatevoli» che manganellavano i loro parenti, ora entrano le cornacchie. E nessuno per il momento, neanche al I Municipio, sa quale potrebbe essere la prossima destinazione di quelle ampie metrature che un tempo ospitavano gli uffici della Federconsorzi.

Né si capisce l’urgenza di quell’ordine di sgombero forzato in pieno agosto, cioè a ridosso dell’apertura delle scuole, senza una effettiva e concordata alternativa d’alloggio per tante famiglie, per lo più cattoliche, che abitavano là dentro.

L’occupazione andava avanti dall’ottobre del 2013, e il decreto di sequestro preventivo per «invasione di terreni e edifici» – l’occupazione, appunto – è stato firmato dal giudice il 1° dicembre di due anni dopo, quindi due anni e mezzo fa.

Di solleciti alla prefettura, per l’esecuzione dello sgombero forzato dei locali, da allora se ne sono succeduti almeno tre.

Due solleciti da parte della proprietà risalgono all’inizio del 2016, quando poi all’interno del palazzo un soprallugo dei vigili del fuoco portò al sequestro di una cinquantina di bombole di gas usate per preparare i pasti. Sempre in quel periodo indagini della Guardia costiera sui tabulati telefonici di sospetti scafisti portarono all’arresto di un paio di occupanti. Ma anche allora non si procedette allo sgombero.

I dirigenti del supermercato escludono che il palazzo sia ora stato messo in vendita, magari per sfruttare la ripresina del mercato immobiliare romano. «Abbiamo ristrutturato tutto solo un anno fa con un grosso investimento e il contratto d’affitto è appena stato rinnovato», dice l’addetto stampa che presidia l’ingresso in giacca e cravatta, soddisfatto della cacciata dei clienti-occupanti e della presenza di due blindati dietro l’angolo.

Di certo la proprietà ha avuto un danno dall’occupazione, calcolato in 240 mila euro l’anno di bollette per acqua e luce – allacci che non si possono staccare in casi di primaria necessità come questi – e 575 mila euro di Imu e Tasi. Ma si tratta di spiccioli considerati volumi d’affari e plusvalenze miliardari dei proprietari: il fondo d’investimento Omega, ossatura della holding Idea Fimit sgr, un colosso finanziario nato per incamerare e mettere a reddito le grandi e spesso prestigiose proprietà immobiliari di banche (Omega ha «in pancia» gli immobili di Intesa-S.Paolo) o enti pubblici come Enasarco e Inps, diventato in brevissimo tempo (dal 2008 al 20111, in piena crisi) primo player italiano di fondi immobiliari e quarto a livello europeo.

È una creatura di Massimo Caputi, ingegnere civile che dall’azienda del padre Onofrio, altro ingegnere civile amico dell’«asfaltatore d’Abruzzo» Remo Gaspari a Chieti, diventato top manager delll’alta finanza real estate. Caputi, con molte mani in pasta – siede nei cda di Acea, Mps, Antonveneta – è un ex amico e oggi, vice presidente di Assoimmobiliare, concorrente di Caltagirone. E proprio con la ristrutturazione della vicina stazione Termini ha avuto il suo trampolino di lancio.

Di recente è uscito da Idea Fimit. Nel frattempo la «sua» creatura, tramite il fondo Alpha, è in ballo per affittare due grossi edifici a Massimina, periferia nordovest della capitale, come hub per immigrati. I fili del destino tra l’1% e gli ultimi del restante 99% talvolta si intrecciano.