Perché in Europa le destre vincono le elezioni? Dopotutto, il comune denominatore di Meloni, Orban o Kaczynski è un nazionalismo identitario del tipo noi (italiani/ungheresi/polacchi) contro loro (gli altri europei e, più in generale, l’universo mondo). Come si spiega che un messaggio così elementare abbia tanta presa in quella che, sulla carta, resta comunque una unione (sia pure incompleta), dove si avrebbe quindi tutto l’interesse ad attutire le rivalità e le spinte disgregative?

Fino a qualche anno fa, si poteva pensare a un legittimo sussulto di orgoglio nazionale di fronte all’esproprio della sovranità monetaria e politica. In effetti, è sempre più evidente che la politica economica di Roma venga decisa a Bruxelles (se non direttamente a Francoforte) e che, per le questioni decisive, la nostra politica estera sia dettata da Washington. Sarebbe quindi comprensibile il successo di un appello a restituire la decisione politica al “popolo” (ovvero: alle forze politiche nazionali).
I numeri invece fanno pensare che, dopo l’esito deludente della Brexit e l’intensificazione della guerra in Ucraina, il ritorno alle “piccole patrie” non appaia più credibile né ai politici né agli elettori. Una lista dall’esplicito nome di Italexit non è entrata in parlamento, e un leader popolare come Matteo Salvini ha pagato caro il tentativo (molto timido) di smarcarsi dalla linea militare dettata dalla Nato.

La destra vincente non è, insomma, quella che si oppone agli ordini dello “straniero”, ma quella che si impegna a eseguirli con zelo, come ha promesso di fare Giorgia Meloni per ottenere da Draghi la sua garanzia presso i partner europei e atlantici. Se si tratta però di realizzare la presunta “agenda Draghi”, perché il compito finisce proprio all’unico partito che del governo Draghi non ha mai fatto parte e che, in fatto di europeismo e atlantismo, è oggettivamente l’ultimo arrivato?

La domanda ha un senso diverso se la si rivolge alle masse che votano per la destra o invece ai potentati sovranazionali che ne accolgono con soddisfazione il successo. Il fattore decisivo è comunque uno solo: il fatto cioè che l’Europa sia il caso (più unico che raro) di un’unione monetaria che non prevede (ma anzi esclude) un’unione politica legittimata da procedure democratiche.
A suo tempo, si era creduto (e si era voluto far credere) che l’istituzione della moneta unica fosse un passo verso la costruzione di un’unione politica vera e propria e, fino a poco tempo fa, il miraggio di un tale cammino federativo dominava ancora la retorica dei maggiori leader nazionali, proprio per osteggiare l’avanzata dei sedicenti sovranisti.

Ora che l’appello a tornare alla sovranità nazionale ha perso molto del suo appeal, appare chiaro che l’obiettivo delle forze politiche dominanti era ed è tuttora di mantenere a tempo indefinito il pantano istituzionale, senza andare né avanti né indietro.

Nell’attuale interregno, la finanza e le grandi corporation possono muovere i capitali avendo la certezza che l’azione politica dovrà arrestarsi ai confini nazionali. Potranno quindi sfruttare la rivalità tra gli Stati per ottenere “al ribasso” le migliori condizioni fiscali, le regole più permissive e gli accordi più favorevoli con i sindacati e le autorità politiche locali. Del resto, l’unica istituzione che abbia un effettivo potere a livello continentale – la Bce – è molto più vicina ai potentati finanziari che non a esigenze come la tutela ambientale o i diritti civili, che potrebbero ostacolare il suo obiettivo dichiarato: la massimizzazione della “crescita”.

Lo stesso schema si riproduce in politica estera. È ovvio che per gli Stati Uniti sia molto più rassicurante poter contare su una miriade di vassalli che su un alleato unito, che farebbe pesare il proprio interesse quanto quello dei partner. Un’Europa disunita politicamente è l’ideale per ogni amministrazione americana, almeno quanto lo è per Putin o Erdogan. Sta di fatto perciò che la politica nazionalista delle destre, decise a bloccare qualunque passo verso la costruzione di una sovranità continentale, è perfettamente congruente con l’interesse dei “poteri forti”, in campo militare come in campo economico. Se questa è l’agenda, loro ne sono gli esecutori ideali.

D’altro canto, la loro pretesa di essere anche i migliori difensori dell’interesse nazionale è più che una banale messa in scena. In una Europa che non ha progetti propri, e può solo mediare fra interessi nazionali antagonisti, è logico aspettarsi che tali interessi siano difesi con più furbizia e più tigna da chi non mostri alcuna sensibilità per ciò che va al di là del sacro egoismo nazionale. Non per nulla, l’uso spregiudicato del diritto di veto è lo strumento strategico più caro ai nazionalisti: paralizza l’iniziativa collettiva ma assicura un maggiore potere contrattuale e, di conseguenza, un più ampio consenso in patria.

Nell’Europa dei nazionalismi, gli interessi strettamente nazionali sono effettivamente ben difesi. A essere penalizzati sono invece gli interessi condivisi, quelli che ci stanno a cuore non in quanto italiani, polacchi o ungheresi, ma in quanto esseri umani: l’interesse a un’aria respirabile, a una pace duratura o a una vita dignitosa. Interessi così generali potrebbero trovare un’espressione politica solo a livello continentale. Finché la politica istituzionale resta confinata alle “nazioni”, si riducono invece a una retorica morale, liquidabile come un lusso da salotto.

Il punto è che, mentre gli interessi strettamente nazionali tendono ad atrofizzarsi sotto il peso delle tante crisi di questi anni, quelli di portata generale diventano sempre più urgenti e drammatici. Spingono perciò verso la formazione di un’alleanza progressiva, una specie di “società civile europea”, capace di imporli all’agenda politica continentale.

La maggiore preoccupazione degli apparati di potere, in questi ultimi anni, è stata proprio impedire che un processo del genere prendesse forza. Finora ci sono riusciti e, anche su questo, la mano pesante dei nuovi nazionalisti potrebbe dimostrarsi un supporto prezioso nelle future emergenze. A meno che, nel frattempo, non emerga almeno la potenzialità (se non la realtà piena) di un soggetto collettivo capace di raccogliere la sfida e rilanciarla all’intero continente.