Tra i filosofi del Novecento Ludwig Wittgenstein è forse, ma non sarebbe sbagliato dire sicuramente, quello che ha più ha attratto l’attenzione su di sé, sulla sua vita e le sue varie vicissitudini. I motivi per questo interesse sono molteplici. Uno di questi è da ricondurre agli eventi storici, ai personaggi, alle città e ai paesaggi che hanno fatto da sfondo alla sua vita e che con essa si sono variamente intrecciati: la Vienna asburgica della sua infanzia e giovinezza, in cui la famiglia Wittgenstein occupava un ruolo economico e culturale di grande importanza, l’Austria bellica e postbellica, con i suoi drammi, le sue nostalgie e i tentativi di ridefinire sé stessa, la Cambridge universitaria anni trenta e quaranta, ossia la Cambridge di Bertrand Russell, George E. Moore e John M. Keynes, un mondo da cui Wittgenstein era insieme attratto e respinto, la Norvegia e l’Irlanda dei suoi lunghi ritiri e delle sue ripetute fughe.
Un secondo motivo è costituito dalla sua atipicità; Wittgenstein non è stato solo un filosofo: ha iniziato studiando ingegneria, ha insegnato per alcuni anni come maestro elementare, ha fatto per un periodo l’architetto progettando e dirigendo a Vienna la costruzione della casa della sorella Margarete, ha abbandonato la filosofia e l’ha ritrovata, è stato tentato dalla medicina, ha progettato o fantasticato di fare l’operaio nell’Unione Sovietica, e via raccontando. Eppure l’impressione che si ricava leggendo le sue lettere e le molte testimonianze dei suoi amici e allievi è che tutto questo avesse sempre a che fare con la filosofia, con il suo modo peculiare di essere filosofo. Per Wittgenstein, verrebbe da dire, senza una buona vita non vi è una buona filosofia così come un buon filosofo non è mai semplicemente un filosofo (qualcuno che insegna filosofia o che scrive di filosofia).

Wittgenstein diffidava della filosofia e di chi la voleva insegnare; ma nello stesso tempo non solo la insegnava, con grande fatica e passione e esigendo moltissimo da sé e dai suoi allievi, ma non poteva fare a meno di filosofare annotando senza posa e quasi con ossessione su quaderni e taccuini le sue osservazioni filosofiche. In questo senso Wittgenstein è il filosofo che più di ogni altro, nel suo e nel nostro tempo, si è posto, nella sua vita e nella sua filosofia, il problema del rapporto tra la prima e la seconda; un filosofo, insomma, per il quale non è mai stato ovvio che cosa volesse dire e comportasse vivere da filosofo.

Un terzo motivo riguarda il grande fascino, un misto di timore e venerazione, che Wittgenstein esercitava non solo sui suoi allievi, ma anche su personaggi già noti e affermati, come, per fare solo due esempi, Russell, con cui andò a studiare a Cambridge nel 1912 e di cui, nonostante la differenza di età e di fama, cessò ben presto di essere solo un allievo, e il grande economista Keynes, il quale fu tra quelli che lo convinsero a tornare a Cambridge e alla filosofia nel 1929. Di questo fascino parlano (alcuni, va detto, anche in tono ironico o, come nel caso del filosofo kantiano Charles Broad, con un qualche evidente fastidio) tutti quelli che ci hanno lasciato ricordi e testimonianze del loro incontro con Wittgenstein; basti ricordare le molte vivide pagine che Russell gli dedica nella sua Autobiografia o quello che nei loro ricordi ne scrivono, per esempio, Norman Malcolm e Maurice O’ C. Drury, due suoi amici e allievi, o la sorella maggiore Hermine.

Ebbene, come può sicuramente testimoniare chiunque abbia parlato di Wittgenstein in pubblico o ne abbia insegnato la filosofia nelle aule universitarie, questo fascino è ben lungi dall’essersi indebolito, anche se oggi la sua filosofia non è più, almeno in alcuni circoli filosofici, così influente come lo è stata nei decenni scorsi. Succede insomma che, come ormai capita con ben pochi filosofi, si desideri conoscere chi era Wittgenstein e da dove derivasse un fascino capace di sedurre, come appena ricordato, non solo i propri allievi, ma anche personaggi (il già citato Keynes ne è un classico esempio) tutt’altro che sprovveduti. Da quello che si sa, Wittgenstein non avrebbe per nulla apprezzato questa attenzione per la sua persona e la avrebbe senz’altro considerata il sintomo di una inutile o invadente curiosità. Certo, in alcuni casi può trattarsi solo di questo, ossia di curiosità impicciona, ma in altri la vita di Wittgenstein attrae proprio perché è la vita di un filosofo.

Vi è un quarto e ultimo motivo che credo vada ricordato, il quale si connette all’impressione, suggerita dallo stesso Wittgenstein in relazione, per esempio, all’ispirazione etica della sua filosofia o al ruolo che la musica avrebbe avuto nel suo filosofare, che egli non abbia davvero scritto su ciò che era più importante per lui. Per esempio, in una celebre lettera a Ludwig von Ficker, in riferimento alla sua prima grande opera, il Tractatus logico-philosophicus, Wittgenstein osserva che il suo lavoro «consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante».
La questione è difficile e controversa; non è né facile intendere l’indicazione che viene data a von Ficker né se essa possa essere estesa anche a quello che Wittgenstein scriverà successivamente al Tractatus. In ogni caso è evidente che questo aspetto può motivare filosoficamente un’attenzione per Wittgenstein e la sua vita che, in altri casi e per altri filosofi, sarebbe del tutto fuori luogo.
Tutti questi motivi sembrano stare all’origine di Wittgenstein Una biografia per immagini (pp. 461, euro 75,00). In particolare, ciò che, secondo Michael Nedo, il suo curatore, la giustifica è la convinzione che tra la vita e l’opera di Wittgenstein vi sia un legame filosoficamente significativo. Come si legge infatti nella prefazione, compito principale di questa biografia per immagini è mostrare quel «legame tra la vita e l’opera di Wittgenstein» che è «fondamentale per la comprensione della sua filosofia»; l’intento, insomma, «è quello di gettare uno sguardo il più possibile diretto e imparziale sulla vita e l’opera di Wittgenstein», sollecitando il lettore «a rintracciare i legami tra la sua biografia, il suo ambiente spirituale e personale e la sua opera».

Compito e intento sono forse troppo ambiziosi e tutt’altro che ovvi. Tuttavia, la biografia è di grande interesse, e non solo per uno studioso di Wittgenstein, e si sfoglia con grande piacere. Tutte le immagini, dalla prima foto (la foto di un Ludwig bambino dallo sguardo intenso e dall’espressione corrucciata) all’ultima (la sua tomba, semplice e disadorna, nel cimitero di St Giles a Cambridge) sono accompagnati da testi nella grande maggiorana di Wittgenstein (estratti dai suoi scritti e dalle sue lettere), ma anche di amici, allievi e familiari (lettere, testimonianze, eccetera). Questi brevi testi, che talora illustrano semplicemente le foto, ma che più spesso fungono da commenti, collegando, per esempio, un’osservazione filosofica di Wittgenstein a un volto, a un paesaggio o a un evento storico, sono spesso di grande interesse. Alcuni di questi sono anche di immediata rilevanza filosofica; ciò vale, per esempio, per le due lettere a Rudolf Carnap e a Moritz Schlick, lettere sulla cui importanza ha a lungo insistito Jaakko Hintikka, in cui Wittgenstein accusa violentemente Carnap di plagio per quanto riguarda il fisicalismo (nome che, peraltro, giudica «orribile»), la concezione delle ipotesi e delle definizioni ostensive e la distinzione tra modo materiale e modo formale. Ma il vero interesse del libro è nel materiale iconografico: luoghi, paesaggi e soprattutto volti (in particolari i volti di Wittgenstein nelle varie fasi e circostanze della sua vita) che ci permettono di vedere il mondo che Wittgenstein ha visto e talora fotografato (abbiamo qui diverse interessanti testimonianze del Wittgenstein fotografo) e di vedere Wittgenstein come i suoi contemporanei l’hanno visto e fotografato.