Bisogna sottolinearlo da subito: la disoccupazione, proprio questo destino di cui uno potrebbe credere che stringe in unità gli operai, è al contempo quel che inibisce la loro coscienza di classe. Infatti gli operai sono in concorrenza gli uni contro gli altri; gli operai contro i disoccupati; quelli che (assicurati da un salario minimo) fanno apologia del lavoro contro i declassés. Questa divisione afferisce all’immagine del tardo capitalismo proprio come la relativa concorrenza tra i trusts all’interno di uno stesso gruppo di datori di lavoro. (…)

Questa circostanza di non essere, di non appartenere a nessun luogo, di non essere neppure più una cosa utilizzabile, non è la morte. Infatti come per una persona totalmente disperata, che viene trattenuta dal suicidio da un più profondo strato dell’io, così nell’operaio resta l’esistenza fisica come residuum. Solo in questo strato di esistenza che gli è rimasto può ora agire. All’inizio non reagisce, accumula. La povertà diventa rabbia senza un determinato oggetto di rabbia. Rabbia vendicativa senza un determinato oggetto contro cui arrabbiarsi. Infatti gli è impossibile decidere, nella basilare imprevedibilità del mondo attuale, chi lo ha portato in questa situazione. Ma ha bisogno di un oggetto di rabbia per superare la rabbia. Se non lo trova arriva ad inventarlo. E allora l’ebreo diventa l’oggetto della rabbia – in una certa misura a posteriori.

Dalla classe alla razza

Il garzone ha appreso a diciassette anni a fare il falegname, ora ha ventitré anni. Non ha mai potuto tradurre in lavoro quel che ha imparato. Essere adulto significa per lui essere chômeur. Essere adulto significa per lui non avere né il diritto, né la possibilità di fare qualcosa. Non può sposarsi – non ha soldi. Non può lavorare. Non può restare in casa: sarebbe un oziare. Non può restare per strada – consumerebbe le suole. Non crescerà mai, non diventerà mai un adulte, une grande personne. Non bighellona solo nel suo vestito da garzone, ma anche nel suo volto da garzone. Non ha preoccupazioni, dal momento che lui non potrebbe porvi rimedio.

All’improvviso gli si apre una via di fuga: viene nutrito, meglio che a casa, e anche (et cella) in modo serio; non soltanto in modo serio, ma anche in modo magico: ottiene l’uniforme; non soltanto in modo magico, ma anche in modo nobile: è della razza migliore, non solo nobile, ma anche potente: lui, ultimo degli ultimi, è destinato a essere un salvatore. Il suo pugno alzato conserva felicemente una direzione verso cui dover picchiare, felice di poter dare alla sua rabbia la legalità dell’onore e anche di dare un certo onore alla illegalità, picchia lì dove gli viene indicato. E non ha bisogno di nient’altro che di un nemico. (…)

Dove l’operaio si distacca dalla cultura borghese, tenta di realizzare l’ideale che la rivoluzione borghese aveva formulato come teoria, e che le ideologie borghesi avevano da tempo abbandonato: quella dell’uomo di natura. Denudandosi in modo programmatico, si bagna nei laghi intorno a Berlino e vive nelle tende. Si trovano qui inestricabilmente legati il materialismo rivoluzionario, la cultura del nudismo e il culto della natura del movimento giovanile, come anche il neopaganesimo del movimento puramente popolare. In estate viaggiano in campeggio senza calze e senza costume da bagno, ma con il grammofono, la loro vita nomade e i loro apparecchi radiofonici risuonano nella notte del campeggio rischiarato dalla luna. L’abbronzatura dei loro corpi è eloquente del fatto che non lavorano più sotto l’ombra della fabbrica, e che le loro ferie non sono un periodo di ricreazione dal lavoro, ma piuttosto l’essere tagliati fuori dal lavoro.

Vivono ancora solo in modo fisico, poiché non sono più nessuno e non valgono più di niente. Si capisce che sono pronti per quella teoria, per quella categoria che fa dell’autentico una virtù della fisicità, sono pronti per la teoria della «razza». E questo è tanto più comprensibile quanto più il concetto di razza transfuga attraverso i secoli, cioè attraverso la storia, la tradizione (alla quale loro non hanno preso parte) e si sofferma su qualcosa di preistorico (cioè d’inerente alle fonti). La speranza nutrita da Marx di fare della classe operaia l’erede della storia intellettuale tedesca era un’illusione. La storia ha messo un termine a questa speranza a partire dalla storia stessa. Gli operai che sono diventati senza storia e senza tradizione, si vendicano sulla storia, e fanno un salto indietro nell’utopia.

Non hanno nulla dietro di loro. Ovvero: non hanno nessuna tradizione. I loro padri e i loro nonni lavoravano come operai agricoli a est dell’Elba o in Pomerania. Sono arrivati in città come operai. Hanno ricominciato tutto da zero, senza reminiscenza. Non hanno nessuno stile di vita. Non sono stati modellati da nessuna religione o contestazione della religione, da nessuna morale o contestazione della morale. Erano solo uomini in un senso barbarico. La città in cui arrivano è appena più vecchia di loro. Anch’essa non ha nessuna tradizione, non può più modellarli nello stesso tempo in cui essa si modella, non può (come fa Parigi) renderli a posteriori eredi di un passato al quale loro in realtà non hanno partecipato.

Non hanno niente davanti a loro. Non possono contare su nulla. Non possono disporre neppure di un pezzettino di futuro. Senza direzione e senza oggetto, d’un tratto l’élan vital precipita ed esita tra le alternative di temerarietà e apatia.

Non viveva nel suo mondo, ma nel mondo che «portava il colore dell’altra civilizzazione, quella degli altri». I suoi romanzi erano i cattivi romanzi borghesi, di cui erano riempite le sue domeniche. I suoi vestiti della domenica erano i vestiti che il suo capo indossava durante la settimana. Non viveva nel suo mondo, ma in quello degli altri, di cui non conosceva la storia, e i cui risultati e le cui scorie gli servivano come dimora. Di che cosa si deve occupare visto che ormai all’improvviso ogni giorno è domenica? Visto che lui – tentazione piccolo-borghese – è un pensionato contro la sua stessa volontà? Infatti non può acquistare quotidianamente le distrazioni della domenica. Desidera – nella misura in cui ha abbandonato la coscienza di classe – la vita del piccolo-borghese perché è un pensionato e perché, non avendo avuto il tempo di vedere il suo proprio mondo, deve ormai intendere il mondo del borghese (Fenomeno parallelo: il piccolo-borghese che di fatto, pur non volendolo, è proletarizzato, si ferma allo stesso punto. La miseria unisce le classi, i diseredati difendono gli stracci dell’eredità).

Che cosa c’era prima? Era occupato, ma non (come era, per esempio, nel caso dell’artigiano) con il suo mondo, o con l’ultimazione di un oggetto, ma piuttosto con la divisione di un mondo che non può vedere nel suo insieme , poiché sono solo minuscole parti. Era quindi occupato, ma proprio a causa della sua lunghezza e della sua intensità, questa occupazione non poteva costituire né una vita (nel senso di un’unità biografica) né la sua speciale vita . Doveva fare quel che anche ogni altro può fare. In che cosa avrebbe potuto ora, in quanto «libero», applicare la sua memoria? In una sola cosa: nel ricordarsi l’eccezionale, vale a dire la domenica. In queste condizioni non può essere un ricordo che restituisce il continuum di una vita, ma solo la sua sorella subalterna: la sentimentalità. La sentimentalità che è tanto banale, tanto comune come la sua vita quotidiana, che non teme, una vita che non dirige affatto in prima persona perché lui non viveva, almeno non in quanto lavorava, ma «veniva vissuto». E non è solo lui che non viveva, ma uno qualunque degli operai che faceva questo o quel lavoro; e il modello esemplare di questo uno qualunque era proprio Fritz Müller o quel nono operaio che rispondeva al nome di Schulz.

Nel tempo del gioco

Il tempo vuoto – che un tempo era conosciuto solo come astrazione filosofica del tempo sempre già pieno – diventa qui nell’esistenza dello chômeur realtà. Poiché, mentre la vita è sempre e totalmente impegnata nel fatto di impegnarsi in qualcosa, e il tempo è la forma ordinata delle sue occupazioni, la vita è ora improvvisamente abbandonata a sé stessa e alla vuotezza del suo tempo che non avanza più ma resta fermo. Perché più la vita è disimpegnata, più il suo tempo trascorre lentamente. Ma non è concesso a questa vita senza particolarità e occupazioni di badare a sé stessa, non le è neppure concessa la riflessione in senso più ampio, poiché la riflessione ha sempre altri motivi: è scoperta di sé, coscienza, rimorso (Agostino), ricordo come reminiscenza della vita piena e sua unificazione biografica (Goethe), è scoperta del mondo interiore come rinunzia al mondo, abbandono alle nuances dell’interiorità propria conosciuta come disordine (Proust), è autodeterminazione nell’ascolto dell’imperativo morale (Kant). Ma qui la vita è solamente rimandata a sé stessa da qualcosa di altro da sé, da qualcosa di estraneo, e senza che lo abbia deciso. Non lo trova, non nel senso della autonomia kantiana, non lo rimpiange. È lasciata dal mondo e dall’idea stessa di un’occupazione. Non essendo altro che un reliquat, non ha nessun mondo interiore pieno, ma aveva giornate impegnate (per chi?). Non solo non è esercitata nella riflessione, ma, se anche intraprendesse questo percorso, non avrebbe alcun oggetto, non troverebbe niente perché non c’è niente da trovare. Questa vita infatti non era essa stessa niente e quindi doveva decidersi per un’occupazione in qualcosa di altro. Occupazione in che cosa?

Se non con il sonno e il gioco, cioè con la morte del tempo e con l’inganno del tempo di vita tramite la sua sostituzione con quello artificiale del gioco, come coloro che girovagano senza una direzione. Preoccupandosi della vita (ci si preoccupa della cosiddetta vita nuda con il sostegno di disoccupazione e il sussidio), la si priva del diritto elementare, preumano, naturale, di preoccuparsi di sé stessa. Le patate vengono sia raccolte sia guadagnate: sono poste davanti allo chômeur come i leoni allo zoo.

 

Traduzione di Micaela Latini