Rinat Akhmetov è l’uomo più ricco d’Ucraina. I suoi affari li fa soprattutto nel comparto dei metalli. È uno dei grandi finanziatori del Partito delle regioni del presidente Viktor Yanukovich. Con il capo dello stato condivide non solo la casacca politica, ma anche la città di residenza. Entrambi sono di Donetsk, centro industriale nell’est del paese. Nella giornata di martedì, quando è iniziata la carneficina di Kiev, l’oligarca ha diffuso una nota. Questo il testo: «Non c’è circostanza che possa giustificare l’uso della forza […]Serve una soluzione che permetta di uscire da questa profonda crisi».

A stretto giro di posta s’è espresso anche Dmytro Firtash, allo stesso modo. «Dobbiamo unire le forze e porre fine al bagno di sangue». Firtash non è ricco come Akhmetov, ma è anch’egli uno dei grandi magnati vicini a Viktor Yanukovich. I soldi li fa con l’energia e negli ultimi anni ha acquisito una crescente influenza, sia economica che politica.

La parole di Akhmetov e Firtash sono state interpretate da diversi osservatori come il segnale che i due starebbero iniziando a togliere terra da sotto i piedi di Yanukovich. Si dice che altri industriali legati al Partito delle regioni potrebbero seguirli. Il che, tenuto conto del peso dei tycoon nell’assetto economico, mediatico e politico dell’Ucraina, potrebbe portare il campo presidenziale all’implosione. Ma questa, forse, è una lettura troppo frettolosa. D’altronde, visto che i giochi non si fanno più a palazzo, dato che il conflitto è nelle strade e considerato che l’opposizione è incapace di controllare gli insorti, dove si collocherebbe chi ha foraggiato Yanukovich in questi anni, ottenendo in cambio favori e appalti?

Prima di continuare è il caso di capire chi sono gli oligarchi e perché contano così tanto. I numeri vengono in aiuto. Nel 2010 il Council on Foreign Relations, noto think tank americano, incrociò qualche dato e dimostrò che le cinquanta persone più facoltose d’Ucraina detenevano una quota di Pil pari a 67,7 miliardi di dollari, quasi la metà dei 136,4 totali. In Russia il peso delle oligarchie sul Pil si ferma al 15%.

I magnati ucraini hanno anche un’enorme influenza nel settore bancario. Ne controllano il 70%, come emerge da The Oligarch Democracy, lavoro voluminoso e puntuale firmato da Slawomir Matuszak, ex ricercatore del Centre for Eastern Studies di Varsavia, ora in servizio al ministero degli esteri polacco.

La vocazione degli oligarchi è prima di tutto la tutela dei loro affari. Da quando sono emersi sulla scena, con le privatizzazioni predatorie degli anni ’90, non immuni da dinamiche criminali (Firtash avrebbe contato sull’appoggio del capomafia Semion Mogilevich), hanno sempre utilizzato il loro strapotere economico per condizionare le vicende politiche e strozzare le riforme. Questo a prescindere dai partiti che hanno scelto di sostenere.

Qualche tempo fa Luigi De Biase ha giustamente annotato sul Foglio che la mancata terapia d’urto economica è una cartina di tornasole dell’Ucraina post-sovietica. Il deficit di riforme ha permesso ai tycoon di consolidare i loro conti, ma ha condannato la popolazione a una vita misera. Il database della Banca mondiale rivela che nel 1991, al momento dell’indipendenza, il reddito pro capite ucraino era pari a 1.490 dollari. Nel 2012 si è attestato sui 3.867. Variazione risibile. Il confronto con i vicini è impietoso. Nello stesso periodo in Polonia si è passati da 2.187 a 12.708 dollari. In Russia da 3.427 a 14.037.

Che tutto cambi, purché nulla cambi: è la filosofia oligarchica, e anche un po’ la storia della rivoluzione arancione. Sembrava che l’ascesa al potere di Yushchenko e della Tymoshenko avrebbe sdoganato la classe media e qualche oligarca minore, rosicchiando punti ai pesi massimi. Non andò così. I potentati economici, sia quelli che sostennero gli arancioni, sia quelli (i più) che s’opposero al regime change, si ritrovarono uniti a bloccare i sussulti liberalizzanti, stoppando di conseguenza l’evocato avvicinamento all’Europa.

Agli oligarchi sta bene che l’Ucraina fluttui tra Bruxelles e Mosca. Il mercato russo garantisce loro profitti maggiori, assorbendo prodotti industriali più sofisticati, non competitivi in quello europeo, dove si esportano soprattutto materiali grezzi. Ma vincolarsi totalmente all’Unione doganale post-sovietica promossa dal Cremlino li esporrebbe alla concorrenza del capitale russo, con il rischio di soccombere. Dunque, si cita ancora il lavoro di Matuszak, è utile una copertura europea. In questo senso gli oligarchi guardavano agli incentivi economico-commerciali proposti dall’Ue, ma bocciati da Yanukovich, con interesse. Avrebbero portato più competizione – ai ricchi di Kiev questo non piace – ma assicurato al contempo garanzie più robuste sulla proprietà, riparandola dall’ombra insidiosa di possibili processi. Insomma, la linea è conservare i rapporti con Mosca tenendo aperta una finestra sull’Ue. Questa era anche la tattica che tutto sommato Yanukovich ha cercato di portare avanti, sperando ingenuamente di barcamenarsi tra gli interessi, stavolta più confliggenti che mai, dell’Ue e di Mosca. È finita nel peggiore dei modi. Con la guerra civile.

Questo tuttavia non significa – qui torniamo al punto di partenza – che gli oligarchi che hanno appoggiato Yanukovich vogliano ora saltare il fosso. Dove andrebbero? Chi proteggerebbe i loro asset? Akhmetov e Firtash, con le recenti dichiarazioni, non hanno annunciato il cambio di campo, ma cercato piuttosto di pararsi il fianco nell’ipotesi in cui Yanukovich dovesse firmare la resa (nulla va scartato), mettendo comunque l’accento su una soluzione negoziale che salvi il paese e, sottinteso, i loro patrimoni. Che potrebbero essere colpiti dalle sanzioni approvate dall’Ue.

Anche Petro Poroshenko, magnate dell’industria dolciaria e dei media, che sostenne gli arancioni e che è schierato con le opposizioni, dopo un’esperienza da ministro di Yanukovich (particolare da non sottovalutare), condivide la stessa visione. Non casualmente, si direbbe.