Tra le innumerevoli suggestioni del 24° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina che si è concluso lunedì sera a Milano, la selezione del Concorso Cortometraggi Africani si è rivelata fra le più ricche per ricerca espressiva e indagine tra le pieghe della Storia di un continente. Dispiace solo che il primo premio sia stato attribuito all’inesistente ed estetizzante opera Afronauts della ghanense Frances Bodomo dove si reinventa, in un accademico bianco e nero, una storia vera, il folle tentativo della Zambia Space Academy di battere sul tempo l’allunaggio americano nel luglio del 1969 dell’Apollo 11.

Avrebbe decisamente meritato miglior gloria lo splendido film di Jean-Marie Teno Une feuille dans le vent, cinquantasei minuti di rara emozione sulla storia di Ernestine, figlia dell’attivista politico Ernest Ouandié. Due voci ci parlano, quella del regista (che apre e chiude il film presentando prima e accomiatandosi poi la sua non eroina Ernestine) e quella della donna e della sua vita segnata dalla tragedia del Camerun e da ferite familiari mai cicatrizzate.

 

Ernestine racconta pudicamente alla macchina da presa, che più che mostrarla l’ascolta con discrezione, il suo (melo)drammatico vissuto, un calvario di affidamenti, abbandoni e dolori inauditi. Figura centrale del suo racconto il padre Ernest Ounadié , leader dell’Ucp, movimento clandestino di orientamento marxisista, fiero oppositore della politica governativa filo francese e assassinato nel 1971 senza aver mai conosciuto la figlia. La sua sofferenza nel raccontare le sevizie subite da bambina dalla zia affidataria, il suo fallimento di convivenza con la madre e il nomadismo alla ricerca della verità sulla morte del padre, sprigionano emozioni quasi raggelanti raccontate da Ernestine seduta, per tutta la durata delle riprese, sulle scale di un portico, in una perenne soglia fra la porta di casa, simbolo di concretezza e stabilità, e il mondo esterno, un fuori campo dove la vita prende forma nelle voci di bambini festanti e nel canto di un gallo. La grandezza del film giace proprio in questa semplicità: il grido di dolore di una donna e quello di tutta una nazione, segnata per sempre dal dramma di una colonizzazione mentale oltre che politica che ha portato alla perdita d’identità una generazione ed Ernestine al suicidio. L’inquietudine dello spettatore è data dal fatto che, fin dai primi minuti, la voce del regista ci informa che Ernestine, qualche anno dopo le riprese, si era tolta la vita e ciò che vediamo è la cronaca di una morte quasi annunciata fin dalle prime immagini del film, rami d’albero scossi dal vento mentre Ernestine si paragona a una foglia senza l’appoggio di un ramo e di un tronco e quindi in balia del caso.

Altre emozioni le ha regalate l’anomalo documentario sudafricano Gangster Backstage di Teboho Edkins. Ancora sguardi in macchina, ancora le voci della sofferenza: adolescenti e giovani uomini del ghetto che confessano i loro crimini, le loro paure rispetto alla morte, la loro impossibilità di essere normali nei quartieri segnati dalla violenza. Un ragazzino balbuziente, figlio di un gangster locale, nel suo scimmiottare i cliché e le movenze dei suoi criminali-fratelli maggiori, si fa metafora dell’impossibilità, nonostante gli sforzi, di una narrazione filmica puntuale e precisa. Il loro dramma non può che essere raccontato in poche sincopate frasi e a favorire una narrazione impossibile, davanti alla macchina da presa, il ricorso a uno spazio altro, una sorta di teatro alla Dogville senza più inutili dogmi, dove conta soltanto lo psicodramma e la reinvenzione di un passato ancora presente.

Ultima tappa del viaggio nel Concorso ci porta in Burkina Faso, nella metà degli anni ’80, era Thomas Sankara. Il quotidiano di un bambino nel villaggio, fra scorribande non proprio legali con la gang del fratello maggiore e sogni da supereroe dei fumetti che si materializzano sullo schermo, costituiscono il nucleo centrale di Twaaga di Cédric Ido. Attraverso un’affabulazione, sospesa fra immaginario e realtà, il film riesce a farsi metafora di un pezzo di Storia mai dimenticata e forse irripetibile. Manu, il piccolo protagonista, si libra nell’aria come Silver Surfer, sorretto dalla voce dell’«eroe» Sankara che per pochi anni rivoluzionò lo Stato delle cose prima della caduta violenta nel 1987. Anche Manu, nel finale crudo e realistico, precipita nel sangue, spezzando così, come in seguito all’assassinio di Sankara, le ali di una libertà e di un’utopia non solo sognate ma anche realizzate.