Domani Renzi inaugurerà il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea. Nonostante i giri di parole, è un’Europa che non cambia. Noi vogliamo un’altra Europa: democratica, federalista, solidale, ecologica, inclusiva, pacifica.

Democratica, cioè con una vera Costituzione, con un governo sovranazionale a base parlamentare, autonomo dai poteri dell’alta finanza, che definisca le politiche economiche, sociali, ambientali e culturali. Ma la democrazia riguarda anche i singoli paesi.

Dobbiamo preservare l’impianto della Costituzione italiana e fermare l’erosione della democrazia da tempo in corso. Inoltre, alla democrazia rappresentativa occorre affiancare, in tutto il continente, nuove forme di democrazia partecipativa di prossimità, che è ciò che trasforma risorse e servizi in beni comuni.

Federale, non significa un aggregato di Stati, ma una rivalutazione radicale delle autonomie locali; dei Comuni o delle unioni di piccoli Comuni: le istituzioni più vicine ai cittadini, dove è meno difficile dar vita a forme di democrazia partecipativa.

Solidale: i paesi dell’Unione devono condividere costi e benefici del cammino comune: non solo moneta, ma debiti, tassi di interesse, fisco, investimenti pubblici. Altre forme di solidarietà devono riguardare anche tutti gli altri paesi del mondo, a partire da quelli rimasti ai margini dei benefici, ma non dei costi, dello sviluppo industriale. Ma solidarietà vuol dire soprattutto giustizia sociale in ogni paese; redistribuzione del lavoro, del potere contrattuale, del reddito, degli oneri fiscali, dell’istruzione, dei presidi sanitari, dei diritti. Senza escludere il rispetto di tutto il vivente e della natura.

Ecologica vuol dire fare i conti non solo con la natura prodotta dall’evoluzione geologica e biologica del pianeta, ma anche con quella “seconda natura” in cui siamo ormai tutti immersi, prodotta dalla rivoluzione industriale, dai materiali sintetici, dalla proliferazione di prodotti e rifiuti – solidi, liquidi e gassosi – generati dalla “civiltà” dei consumi. Occorre ritrovare un equilibrio fra mondo naturale e mondo artificiale che impedisca a questo di soffocare quello. Purtroppo l’Unione europea si sta progressivamente disimpegnando dalle politiche ambientali, mentre manomissione e inquinamento di ogni singolo territorio non fanno che aumentare.

Inclusiva: l’Europa non deve più essere governata come una “fortezza” assediata da una “armata” di profughi e migranti in cerca della propria sopravvivenza. In un’Europa solidale ci deve essere posto per tutti. Emarginazione, clandestinità, discriminazione razziale – sia quella su basi biologiche o culturali, che quella sempre più diffusa contro i poveri – sono calamite di nuove miserie che si riproducono in una spirale senza sbocchi. L’accoglienza consente invece un diverso rapporto con le popolazioni e con le istituzioni dei paesi di origine di profughi e migranti; riconoscere loro diritti e rappresentanza può facilitare la composizione dei conflitti che ne determinano l’esodo e una circolazione di persone, di competenze e di relazioni che possono arricchire sia i paesi di origine che quelli di arrivo. Ma l’inclusione riguarda ogni forma di diversità – che messe tutte insieme costituiscono ormai una vera maggioranza sociale – che, prima di mettere sotto accusa idee e comportamenti altrui, interpellano innanzitutto le nostre concezioni e il nostro stile di vita. Questo vale in particolare nei confronti della cultura e del potere patriarcale che continua a dominare la vita economica e sociale in tutta l’Europa e particolarmente nel nostro paese.

Pacifica: non basta garantire la pace all’interno se ai confini imperversano conflitti sanguinari. L’Europa deve avere un ruolo attivo nella composizione dei conflitti altrui; specie quelli prodotti dai propri interessi, come la corsa al petrolio o l’esportazione di armi. Nei confronti delle attività economiche che alimentano quei conflitti occorre poi progettare una vera riconversione ecologica.

L’articolazione ulteriore di questi concetti non può procedere però per logiche interne, ma solo mettendoli alla prova nei territori o in specifici ambiti settoriali. La lista L’altra Europa con Tsipras ha finora raccolto solo una piccola parte di quel fervore di lotte, di iniziative, di progettualità alternative che contraddistingue da anni il nostro paese. Ma è con queste realtà che ora occorre confrontarsi e prendere iniziative comuni, organizzandosi a livello locale per gruppi di lavoro o per commissioni tematiche, promuovendo collegamenti nazionali e internazionali (grazie anche alla nostra presenza nel parlamento europeo e nel Gue), ma soprattutto andando a cercare quegli interlocutori, singoli o già organizzati, che non sono stati coinvolti dalla nostra mobilitazione elettorale, per promuovere con loro confronti e iniziative comuni su un piano di assoluta parità. Tutti possono arricchire, con iniziative condivise, un programma che si deve fare pratica politica quotidiana.

Ma questo programma si deve anche consolidare sul piano culturale. Intorno al progetto della lista L’altra Europa si è raccolto in pochi mesi il meglio dell’intelligenza italiana. I nomi sono tantissimi. A tutti dobbiamo offrire un terreno di confronto con le nostre pratiche per dare al progetto, nella più assoluta libertà di ciascuno, un respiro indispensabile a promuovere una rifondazione su nuove basi di una cultura della democrazia e della solidarietà da contrapporre a quella imperante della competitività. Abbiamo due modelli dalle grandi potenzialità: la Costituente dei beni comuni, che ha visto il meglio della dottrina giuridica italiana sostenere alcune lotte come l’occupazione del Teatro Valle, il Municipio dei Beni comuni di Pisa e altre iniziative analoghe; e la costituzione dell’azienda speciale Acqua Bene Comune di Napoli, prima traduzione pratica degli obiettivi dei referendum del 2011.

Questo approccio aperto a ogni sorta di nuovi apporti ha certo bisogno di strumenti di coordinamento e di comunicazione migliori, evitando però strutture pesanti e difficili da ridimensionare. Ma bisognerebbe evitare di concentrarsi su uno spettro che si aggira nel nostro dibattito interno: il “nuovo soggetto politico” (o “soggetto politico nuovo”); o la “costituente della sinistra”; o, senza tante mediazioni, il “nuovo partito”.

Perché il termine soggetto politico, mentre sembra esaltare l’iniziativa e l’autonomia di un agire comune, finisce spesso, invece, per rinchiuderlo in qualcosa di solido, di sostanziale, di autosufficiente e rischia di distogliere il dibattito e l’agire dall’impegno a sviluppare nella pratica quotidiana il tema dell’Europa che vogliamo, dell’Italia che vogliamo, della società che vogliamo. Non sto parlando del “sol dell’avvenire”, ma, più modestamente, di una visione del futuro che vede conflitto e partecipazione, variamente intrecciati tra loro, come componenti permanenti di una dinamica sociale in cui a ogni generazione tocca fare i conti con le acquisizioni e le sconfitte di quella precedente.

Il rischio è quello di un dibattito confinato al tema di come costruire il nuovo soggetto, o il nuovo partito, o la nuova sinistra, sottintendendo che il come trasformare i rapporti sociali con la nostra pratica quotidiana ne discenda automaticamente; o comunque sia una questione del “dopo”. Trascurando, per di più, la dimensione europea e internazionale in cui la lista L’altra Europa ha voluto collocare fin dall’inizio la propria iniziativa.