uro e la stella

 

Raffaele K. Salinari

 

 

 

 

Nella chiesa di S. Luigi dei Francesi, a Roma, c’è una tomba che reca questo epitaffio: «Rappresentò in modo meraviglioso i raggi del sole all’alba e al tramonto». È quello per Claude Gellée, detto Lorrain (Chamagne 1600 – Roma 1682), pittore francese di nascita ma italiano di adozione che, con Nicolas Poussin, è considerato il maestro del genere «pittoresco».

I suoi dipinti e la sua tecnica divennero esemplificativi di quella peculiare tipologia di immagini pittoriche così definita da Edmund Burk nel suo A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1756) dove i soggetti, spesso ruderi e rovine, scene mitologiche grecizzanti, o episodi edificanti della prima cristianità, sono inseriti all’interno di paesaggi in cui la natura si è come reimpossessata dello spazio che un tempo fu umano o divino trasmettendo così, secondo Burk, un senso di «bellezza ideale e immaginaria che non è percepita dal senso organico della vista, ma dall’intelletto e dalla fantasia».

I resti di antiche architetture – la torre diroccata, l’arco gotico, le vestigia dei castelli, i vecchi porti fluviali in disarmo – evocano allora qualcosa di invisibile, quasi trascendentale, che spesso si identifica con una luminosità lontana, incerta, allusiva: un’aura mistica.

 

Lo specchio nero

Questa capacità di rappresentare meravigliosamente i raggi del sole all’alba e al tramonto, come poi reciterà il suo epitaffio, era in realtà sostenuta da uno strumento ottico che possiamo considerare come un dispositivo di realtà virtuale: lo specchio nero.

Si trattava di uno specchio scuro e convesso detto proprio «specchio Claude», che veniva usato per guardare l’immagine riflessa di un paesaggio trasmutandola così nel «pittoresco». Nella sua Guide to the Lakes (1778), Thomas West ne spiega il funzionamento: «La persona che lo utilizza deve sempre voltare le spalle a ciò che vuole osservare, tenendo lo specchio leggermente alla sua sinistra o destra, con il volto schermato dal sole».

Questo dispositivo era molto utilizzato nei tour della Gran Bretagna: in aree come la valle del fiume Wye, che segna il confine tra Galles ed Inghilterra, ci sono ancora oggi delle «stazioni di visualizzazione» cioè luoghi dai quali osservare il panorama attraverso specchi neri appositamente collocati in corrispondenza dei luoghi più… pittoreschi.

Uno di questi, ad esempio, si trova nel giardino dell’Hotel Tintern Abbey e riflette le rovine dell’abbazia di Tintern nel Monmouthshire (Galles). All’istallazione la BBC ha dedicato una pagina web che ne trasmette le immagini in tempo reale.

Come funziona uno specchio nero? La prospettiva, distorta dalla superficie convessa, se da una parte altera la saturazione del colore comprimendo i valori tonali con una perdita di dettaglio, in particolare nelle ombre, dall’altra consente un effetto di unificazione complessiva della forma e della linea.

Lo «specchio Claude» era quindi utile a gestire la dimensione di un grande scenario naturale (panorama), rendendolo più facilmente riproducibile e disegnabile, ma anche a cogliere quelle sfumature di luminosità che Lorrain seppe poi tradurre nei suoi dipinti.

Alcuni specchi del Settecento sono ancora esposti in vari musei tra cui quello di Palazzo Poggi a Bologna; anche chi scrive ne ha elaborato uno sfruttando l’ottica di una lavagna luminosa e apponendo una pittura a spruzzo nera sulla parte concava.

Ma lo specchio nero era solo l’evoluzione di una tecnica ben precedente, che consentiva di captare l’immagine scaturita da una sorgente di luce proiettata in un luogo oscurato; uno strumento che permise ad alcuni pittori del Rinascimento di dipingere in modo particolarmente realistico, quasi fotografico, le loro tele: la camera oscura.

 

La camera oscura

La camera oscura (o camera ottica), è un dispositivo composto da una scatola in cui è stato praticato un foro stenopeico (dal greco stenos,stretto,e opaios,foro); in pratica un semplice foro posizionato al centro di un lato della scatola che funziona come obiettivo. L’immagine captata dal foro, o meglio la luce emanata dall’immagine, la riproduce, capovolta, all’interno della scatola, o camera (da cui la parola camera che ancora oggi in inglese indica la macchina fotografica). Fu Keplero ad usare per primo il termine camera obscura nel 1604 nella sua opera Ad Vitellionem Paralipomena, dove sono esposte le basi dell’ottica seicentesca.

Il fenomeno essenziale, cioè la luce che passando attraverso il foro proietta le immagini, era già noto in Cina: questo dispositivo viene menzionato, con il poetico nome di «luogo di raccolta» o «stanza del tesoro sotto chiave», dal saggio e filosofo Mo-Ti nel V secolo a.C.. Egli scrisse di un’immagine capovolta formata dai raggi del sole passanti attraverso il foro di una stanza buia.

Nell’antichità occidentale fu Aristotele a descrivere la possibilità di proiettare l’immagine del sole in un luogo buio attraverso un piccolo foro; nei Problèmata (libro XV, 6) afferma: «I raggi del sole che passano per un’apertura quadrata formano comunque un’immagine circolare la cui grandezza aumenta con l’aumentare della distanza dal foro».

Aristotele osservò inoltre che l’immagine a forma di mezzaluna che il sole in eclissi parziale proiettava sul terreno attraverso i fori di un setaccio e le aperture tra il fogliame di un platano, era tanto più nitida quanto minore il foro attraverso cui si formava.

Ma è il dotto scienziato arabo (secondo alcuni persiano) Abū ʿAlī al-Ḥasan ibn al-Ḥasan ibn al-Haytham (Basra 956 – Il Cairo 1038), latinizzato in Alhacen/Alhazen, il primo, nel suo trattato di ottica (tradotto in latino e in ebraico già nell’XI secolo), a dare una descrizione esauriente della camera oscura. L’esperimento da lui ideato è molto semplice: mise in fila tre candele davanti ad una parete e collocò nel mezzo uno schermo con un piccolo foro, così l’immagine delle candele veniva proiettata rovesciata e invertita. Anche lui, come Aristotele, sperimentò la camera oscura per osservare un’eclissi parziale di sole.

La prima descrizione sistematica della camera oscura si deve però a Leonardo da Vinci che ne parlò, chiamandola oculus artificialis, nel Codice Atlantico, ipotizzando anche la necessità di una lente posizionata nel foro stenopeico per raddrizzare l’immagine.

Leonardo, oltre che scienziato, pittore, fu anche il primo a suggerirne in modo esplicito l’uso per scopi artistici. Non sappiamo se lo abbia fatto lui stesso, ma come spesso nelle sue intuizioni, è plausibile supporre una sperimentazione effettiva. A questo proposito le sue indicazioni sono molto chiare: «Dico che se una faccia d’uno edifizio o altra piazza o campagna che sia illuminata dal sole avrà al suo opposto un’abitazione, e in quella faccia [dell’abitazione] che non vede il sole sia fatto uno spiraculo retondo, che tutte le alluminate cose manderanno la loro similitudine per detto spiraculo e appariranno dentro all’abitazione nella contraria faccia, la quale vol essere bianca, e saranno lì appunto e sottosopra, e se per molti lochi di detta faccia facessi simili busi, simile effetto sarebbe per ciascuno».

È Girolamo Cardano (1550) ad applicare al foro una prima lente convessa, proprio come suggerito da Leonardo, mentre il raddrizzamento dell’immagine sopra-sotto sarà raggiunto da Giovan Battista Della Porta con l’uso di una lente biconvessa; il ribaltamento destra-sinistra viene infine ottenuto con una seconda lente biconvessa da Keplero mezzo secolo dopo.

 

Caravaggio e la camera oscura

È in questi anni, per molti versi eccitanti per le sperimentazioni ottiche, ma anche rischiosi per via del fatto che la Chiesa riteneva le lenti come devianti la giusta traiettoria della luce verso l’occhio – e dunque foriere di immagini governate dal Maligno – che si innesta l’ipotetico uso della camera oscura da parte di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (1571-1610).

Lo scienziato che ispirò a Caravaggio l’uso della camera oscura fu probabilmente Giovan Battista Della Porta che, nel suo Magiae Naturalis del 1589, scrive un capitolo titolato: «Come alcuno che non sappia depingere, possa disegnare I’effigie d’un huomo ò d’altra cosa. Purché sappia solamente assomigliare i colori». Qui il Della Porta insegna un espediente ottico-meccanico che consente di riprodurre fedelmente una figura mediante l’uso di uno specchio concavo e di una lente biconvessa.

Secondo Roberta Lapucci, specialista in restauro all’Università di Firenze, che ha approfondito la relazione tra la pittura di Caravaggio e l’uso della camera oscura: «Il Maestro, quando proiettava dal modello vivente, probabilmente schizzava velocemente le linee guida delle sue composizioni mediante abbozzi o incisioni direttamente sulla tela, oppure mediante tracciati (disegni?) di figure che poi sembra avere in qualche modo riutilizzato per successive proiezioni in altri dipinti, talvolta eseguiti anche a distanza di diversi anni. In quest’ultimo caso poteva però avvalersi anche solo di specchi piani, proiettando non più dal modello vivente ma dal tracciato. Diversi esempi ci portano a ipotizzare che egli utilizzasse un procedimento di tal genere, perché talvolta queste sagome ricompaiono intere o parziali, diritte o ribaltate destra-sinistra».

Tra gli esempi: la posa del Ritratto del Wignacourt, attualmente al Museo del Louvre, è la stessa del carceriere nella Decollazione del Battista oggi alla Valletta (Malta) nella cattedrale di San Giovanni. Ancora, il grafico utilizzato per l’Angelo del Riposo della fuga in Egitto, ora a Roma nella Galleria Doria Pamphilj, riappare nel soldato – visibile solo nelle radiografie eseguite negli anni Cinquanta del secolo scorso – del Martirio di San Matteo nella chiesa, guarda caso, di San Luigi dei Francesi.

È opinione della studiosache la prima opera del Maestro in cui è evidente l’uso di lenti e specchi sia il Bacco conservato agli Uffizi. Per quale motivo? «Prima di tutto per il fatto che il Bacco è mancino: tiene il bicchiere con la mano sinistra. Non vi sono precedenti in tal senso. È chiaro che l’immagine è frutto di una copia da una proiezione. Se ribaltiamo l’immagine a destra la figura rappresentata appare assai più naturale e a suo agio».

L’ipotesi di una vera e propria camera oscura impiantata nello studio romano di Caravaggio si evince dall’inventario del 1605 della sua abitazione di vicolo San Biagio in cui vengono citati «uno specchio a scudo e undici pezzi di vetro» (probabilmente delle lenti). Tale inventario fu redatto in occasione del processo intentato all’artista da Prudenzia Bruni, sua padrona di casa, che aveva citato il Maestro in tribunale per un risarcimento di ottanta scudi, comprensivo di debiti a danno del «suffitto mio di detta casa che esso ha rotto praticandovi un foro».

Nel celebre dipinto Santa Maria e Santa Maddalena del 1598 si vede chiaramente, riflesso nello specchio convesso scuro, il foro in oggetto, che risulta di forma quadrata, proprio come descritto nei Problèmata da Aristotele.

 

La meridiana a camera oscura

Ma la camera oscura serve anche per misurare il tempo sacro e profano trasformando l’apparente movimento circolare del sole in un moto lineare che oscilla tra i due solstizi del Cancro e del Capricorno.

Se si entra nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma, o nella Basilica di San Petronio a Bologna o nel Duomo di Firenze, di Palermo o in quello di Milano, è possibile osservare, in ognuna di queste grandi chiese, una cosiddetta «meridiana a camera oscura»; tutte concepite in origine verso la fine del Cinquecento, vennero poi ulteriormente perfezionate nei secoli successivi sino al XVIII.

Si tratta di apparati che utilizzano la semioscurità del luogo di culto, ma anche la sua vastità ed orientamento, per misurare sia il mezzogiorno vero – cioè la posizione che il sole al mezzodì solare assume nella sua corsa est ovest dividendo così in due la durata del giorno – sia le grandi scansioni astronomiche come gli equinozi ed i solstizi; basti pensare alla festività pasquale: la regola stabilita nel 325 dal Concilio di Nicea ne sancisce la caduta la domenica successiva alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera.

Prima dell’avvento degli orologi il calcolo del mezzogiorno era dunque fondamentale per scandire le parti della giornata e della notte; non solo quelle dedicate alle varie funzioni religiose, inclusa la variabile Pasqua, ma anche alle attività secolari che a queste erano collegate.

Le grandi meridiane a camera oscura sfruttano lo stesso principio dell’omonimo strumento ottico: all’interno della «camera», qui intesa come spazio della chiesa, viene tracciata una linea di orientamento Nord Sud che riprende quella di un meridiano terrestre. I meridiani, com’è noto, sono linee immaginarie che collegano i due poli, e sono tanti quanti i luoghi che attraversano.

Il raggio solare entra nella camera oscura attraverso una piccola apertura praticata sul soffitto, come in casa di Caravaggio, detta «foro gnomonico», la cui perpendicolare disegna il cateto minore di un triangolo rettangolo in cui il cateto maggiore è il tracciato della linea meridiana e l’ipotenusa, variabile, il raggio inclinato formato dalla luce solare nelle varie stagioni: il mezzogiorno vero è esattamente il momento in cui il raggio del sole proiettato attraverso il foro gnomonico forma un’ellisse il cui asse si sovrappone alla linea meridiana.

In queste grandi chiese, ma in realtà in molte altre minori, le meridiane a camera oscura sono opere d’arte raffinatissime nelle quali, al lato della linea meridiana, è possibile vedere splendidi marmi policromi raffiguranti i segni zodiacali che corrispondono alle varie stagioni dell’anno, ed in alcuni casi, come in quella concepita dal Cassini a Bologna, una serie di declinazioni che consentono complessi calcoli astronomici.

Il nostro tempo è oramai standardizzato, cioè viviamo secondo fusi orari, ragione per cui tranne che sui meridiani di riferimento, nel nostro caso Greenwich, il sole non transita realmente al mezzogiorno standard ma pochi minuti dopo o prima, a seconda si sia ad Est o ad Ovest di questo.

In concreto, chi volesse osservare l’ellissi solare che si sovrappone al centro della linea meridiana deve attendere, a seconda le stagioni, dai dieci ai venti minuti dopo le dodici da orologio, le tredici in ora legale, per osservare il suggestivo fenomeno.

Ovviamente, data l’inclinazione dei raggi solari nelle varie parti dell’anno, l’ellissi luminoso apparirà più ovale nelle stagioni invernali, sino all’estensione massima in occasione del solstizio di inverno, il 23 dicembre, e via via come un disco in quelle primaverili ed estive, sino a palesarsi come un cerchio quasi perfetto al mezzogiorno del 21 giugno, solstizio di estate.

La meridiana di Santa Maria degli Angeli a Roma, forse la più bella anche se non la più precisa – che resta quella di Bologna – a causa dei restauri di tipo estetico ma non funzionale operati dal Vanvitelli nel 1750, era addirittura dotata di uno «gnomone boreale», ora in disuso, che consentiva di misurare la data della Pasqua attraverso l’osservazione della stella polare; una buona ragione per entrare in piena notte in chiesa e farsi ispirare dalla pallida luce dell’ellissi astrale a ritrovare la propria stella personale, l’Astrum in Homine di cui parlava il grande astronomo Giordano Bruno.