Meglio l’arcobaleno che congiunge il ponte San Giorgio da un capo all’altro, delle frecce tricolori che lo tagliano trasversalmente. Meglio il semicerchio iridato che parla di pace, delle strisce di fumo rettilinee dei colori nazionali tracciate da macchine da guerra. A Genova la natura fa meglio degli uomini, sul piano del simbolico, nel giorno in cui, come più non si potrebbe, l’Italia si mostra in tutta la sua presente ambivalenza, intreccio di positivo e negativo, volontà e velleità, bisogno di andar oltre e condanna a ripetersi.

Due Italie non separate tra loro in un prima e un dopo distinti e contrapposti, ma ancora confuse e intrecciate in una zona grigia tenacemente opaca. Tutto, in quella cerimonia inaugurale, parla di questa incapacità del Paese di separarsi dai propri vizi storici, a cominciare dall’oggetto inaugurale: quel ponte integralmente nuovo (e bello) – quasi poetico.

Affidato tuttavia (non importa qui per quali insuperabili ragioni giuridico-amministrative) a chi aveva mandato in rovina il precedente per molto prosaici interessi. E poi l’incontro di Mattarella con i parenti delle 43 vittime, giustamente scelto in forma sobria, in Prefettura, come «occasione raccolta, non di frastuono», e il discorso profondo, non formale, del Presidente, di «sostegno sincero» alle loro ragioni, sulle responsabilità che «non sono generiche, hanno un nome e un cognome», e sull’importanza che «vi sia un’azione severa, precisa e rigorosa di accertamento delle responsabilità».

AZIONE che, tuttavia, a due anni esatti dal fatto, ancora non ha dato risultati visibili, e questo resta il grande rimosso: il greve non detto che pesa e ha pesato nel giorno del Ponte. Sul quale, è vero, sono risuonati i nomi dei morti e, almeno in parte, è stata messa la sordina ai trionfalismi d’occasione (solo in parte perché qualche richiamo al «genio italico» si è sentito), ma sul cui asfalto nuovo di zecca camminava anche qualcuno dei vecchi responsabili (diretti o indiretti) delle indecenti concessioni fatte in passato, e la stessa ministra delle Infrastrutture a cui si deve almeno parte dei ritardi nello scioglimento nel nodo concessorio.

D’ALTRA PARTE è proprio lei, Paola de Micheli – per molti versi un simbolo dell’endemico trasformismo italiano, nel suo fibrillante zig zag tra tutte le componenti del centro-sinistra delle ultime stagioni, nessuna esclusa – ad aver compiuto il capolavoro di accludere al recente decreto «Semplificazioni», in cui avrebbero dovuto esprimersi le istanze di rinnovamento prodotte dal trauma del coronavirus, l’indecente lista di «priorità» delle Grandi opere: un monumento di continuismo nei peggiori luoghi comuni.

IL SEGNO che «nulla deve cambiare» rispetto alle disastrose credenze del prima, a cominciare da quel TAV Torino-Lione che continua a svettare, provocatorio, in cima alla lista. È il segno – un po’ patetico se non fosse drammatico – di quanto l’Italia continui a essere ostaggio del proprio «passato che non trapassa», replicando di volta in volta, aldilà delle dichiarazioni verbali, sempre i propri vizi.

PER QUESTO mi ha colpito (favorevolmente) il riferimento da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a un noto passo di Piero Calamandrei, a proposito appunto del Ponte (la rivista da lui fondata nel 1945), nel suo discorso a Genova. Ma non mi è sfuggito lo stridore tra quel testo e la situazione politica attuale.
Nell’editoriale del primo numero Calamandrei commentava appunto il titolo della rivista e «l’emblema della copertina: un ponte crollato, e tra i due tronconi delle pile rimaste in piedi una trave lanciata attraverso» su cui camminava un «omino».

IN QUELL’IMMAGINE egli vedeva il segno della «ritrovata unità morale dopo un periodo di profonda crisi» e la volontà di permettere al Paese di superare «un passato di distruzione» (il fascismo) per entrare in «un futuro di rinascita», come fedelmente ha riportato Conte.
Ma poi Calamandrei aggiungeva che l’«omino» che transitava sul precario asse, non era una figura generica. Aveva in spalla una zappa. Era un lavoratore. E voleva simboleggiare il necessario cambio di egemonia nell’Italia che ri-nasceva, come dichiarerà poi, purtroppo solo formalmente, l’art. 1 della Costituzione nel definire la nostra Repubblica «fondata sul lavoro».

ORA, È PROPRIO questo il tassello che manca, se si vuole attenuare lo stridore e dar coerenza ai due capi del ponte: questa assenza nel – sia pur parziale – cambio di egemonia, se a dettar legge sul presente e sul futuro continuano a essere i padroni di sempre, che si tratti della resistenza all’applicazione delle zone rosse durante la fase esplosiva della pandemia (si pensi ai diktat confindustriale di Carlo Bonomi) o sull’uso dei miliardi del Recovery fund (tutto ai soliti noti, niente all’«assistenza»).

E se le maggioranze di governo, di qualunque combinazione cromatica siano, continuano a essere ostaggio dei campioni del trasformismo e dei corsari da aula o da consolle.