Le prime e le ultime immagini di The Epic of Everest non rimandano semplicemente a un tempo perduto, a un’epoca lontana che ci riporta agli albori di un cinema eroico. John B.L. Noel, alpinista e regista di questo prezioso documentario del 1924, realizzato con una cinepresa a manovella per seguire il tentativo di scalata dell’Everest compiuto da George Mallory e Andrew Irvine, e restaurato lo scorso anno dal British Film Institute National Archive, inizia e finisce con le riprese di un paesaggio privo di esseri umani, quasi a dimostrare il senso di un’azione estrema, unica, in un mondo senza tracce.

È da questa assenza che si comprende il significato di un’impresa che trascende l’esistenza umana, destinata a essere vissuta nella continua e reciproca relazione tra gli individui e il mondo, inteso quest’ultimo in modo ambivalente come un luogo che ospita e che viene di volta in volta istituito. Ma l’Everest, la montagna che più delle altre si avvicina al cielo, non accoglie e non viene abitata, se non alla sue pendici che Noel documenta, probabilmente per primo, filmando il percorso che da Phari Dzong, a Shekar Dzong passando per il monastero di Rongbuk, porta al progressivo allontamento dall’umanità.

Che senso ha, allora, scalare la vetta e privarsi dello stare con gli altri? Al di là dell’ambizione personale, della ricerca di infrangere il limite imposto dalla natura e di stabilire un primato, scalare l’Everest, come andare sulla Luna, ha a che vedere con la formazione di un immaginario. E non è un caso che dei molti tentativi compiuti nel corso di novanta anni ci siano state restituite delle storie cinematografiche. Perché la nostra realtà si nutre di fantasie, di immaginazioni, di pensieri sulla fragilità della vita e sull’imminenza della morte, accarezzando quel senso di onnipotenza che permette di rappresentarci per un istante oltre la finitezza.

Passeranno ventinove anni prima che Edmund Hillary e Tenzing Norgay arriveranno a toccare per primi la vetta della montagna più alta del mondo. Di Mallory e Irvine resterà il ricordo epico e misterioso di due leggende che si incamminarono senza fare ritorno tra gli umani se non in forma di memoria, di speculazioni sulle immagini mancanti, quelle che avrebbero potuto stabilire se morirono salendo o scendendo dalla cima.E su questo «vuoto» lavora Leanne Pooley, regista di Beyond the Edge (Nuova Zelanda, 2013), che ha deciso di ricostruire quelle «immagini mancanti» per rappresentare nella sua interezza l’impresa del neozelandese Edmund Hillary e dello sherpa Tenzing Norgay. Sottraendo un po’ di quel romanticismo che inevitabilmente appartiene al cinema muto di Noel (film che a Trento viene proiettato con la musicazione dal vivo di Simon Fisher Turner), Pooley, con l’aggiunta spettacolare del 3D ha mescolato interviste, registrazioni vocali, materiali di reportorio, fotografie e scene di finzione. Ancora intatta, però, sembra la natura epica di un’avventura estrema nella quale i sentimenti giocarono un ruolo decisivo.

La montagna nel 1953 non respinse i due scalatori come fece nelle missioni fino ad allora tentate. E molto di quel successo fu dovuto al gioco di squadra degli uomini radunati da John Hunt, il capo della fortunata spedizione britannica. La gloria della conquista spettò a chi fu in grado di salire contro ogni evento naturale sfavorevole, mettendo da parte ambizioni ed egoismi. Alla fine toccò a Hillary e Norgay che nell’emozionante scena del ritorno al campo, decisero di non rivelare chi dei due conquistò la vetta per primo.

Storie di amicizie e di legami profondi che oggi sembrano lontane e impossibili da rivivere. Nella trama cinematografica ordita dal festival di Trento si arriva al presente, ai videofonini che raccontano realtà senza più prestarsi all’istituzione di immaginari, ma solo a consumi sfrenati per spettatori onnivori. Come un qualsiasi video su YouTube, High Tension di Zachary Barr (Stati Uniti, 2013) riporta il fallimento di una spedizione ancor prima dell’ascesa finale. Protagonisti di questo mediometraggio sono due star dell’alpinismo come Ueli Steck e Simone Moro, attaccati con violenza, in seguito a un diverbio, da una folla di sherpa. Sapere chi ha ragione e, quindi, riscattare l’onore di un uomo o di un altro, poco importa, se non ai diretti interessati. A quasi novanta anni dal tragico tentativo di Mallory e Irvine, l’Everest si è trasformato in un luogo turistico, un artificio della comunicazione e dello svago alternativo, e gli abbracci tra Hillary e Norgay sono immagini sbiadite al cospetto di spedizioni riprese ad alta definizione che rispondono alle più banali leggi di mercato: l’umano padroneggia ovunque, disinteressandosi del mondo comune.

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Per quelle strane intersezioni che si creano nei festival, soprattutto quando non regna incontrastata la logica dell’anteprima, diventa suggestivo cambiare meta, spostando l’attenzione dall’Everest al Messico. Nella sezione «Destinazione…» è presente tra i quattrodici film in programma, Who Is Dayani Cristal di Marc Silver (Regno Unito, Messico, 2013) prodottto e interpretato da Gael Garcìa Bernal. Questo lavoro a metà tra il documentario e la finzione, racconta di altre imprese estreme, non promosse ma costrette da un’economia che arbitrariamente decide quali territori si possano valicare. Presentato al festival di Roma nella sezione Alice, Who Is Dayani Cristal viene riproposto a Trento nell’ampia retrospettiva sul cinema messicano, e per contrasto con le immagini precedenti, si può ripensare alla storia di un migrante che attraverso il deserto prova a raggiungere la sua vetta, gli Stati Uniti.

La natura, però, involontariamente asseconda chi erige i muri: l’uomo senza identità viene trovato morto nel deserto. Nessun immaginario, nessuna gloria, nessuna leggenda. Unico segno di riconoscimento un tatuaggio con la scritta Dayani Cristal. Scorrono le immagini tra le interviste a chi ha il compito di restituire, oltre che un nome e un cognome, un corpo ai famigliari, e la messa in scena di quel viaggio disperato, con un solo tragico e ingiusto esito: il confine non si può superare. E se anche quel limite venisse valicato, potremmo immaginare quel migrante come l’etologo di Lorenzo Bianchini in Oltre il guado. Al confine tra Friuli e Slovenia, al di là di un fiume, vi sono fantasmi che braccano chiunque abbia l’ardire di oltrepassare il limite. Dall’horror che si consuma quotidianamente nelle zone di frontiera a quello immaginario di un autore che in modo testardo, seguendo il proprio percorso cinematografico, senza farsi intimorire e deviare dalle ristrettezze economiche, supera anch’egli una barriera e ci proietta dentro il nostro stesso mondo.