Non è ancora l’alba e la politica già twitta. Esulta il premier Matteo Renzi, e con lui il neoministro alla cultura Dario Franceschini. La Grande Bellezza ha vinto l’Oscar, l’Italia cinematografica torna a essere grande nel mondo, Paolo Sorrentino ha riportato dopo quindici anni (l’ultima volta è stato con La vita è bella di Benigni) la statuetta prestigiosa sul suolo nazionale. La festa era già cominciata da giorni ma adesso è tutto vero. Sui social media impazzano i commenti, e se non si partecipa all’entusiasmo collettivo si rischia almeno un’accusa di disfattismo, peggio di snobismo. Con qualcuno che arriva persino a minacciare quei critici che hanno osato esprimere perplessità. Ma da esultare c’è ben poco.
Il film di Sorrentino, lo abbiamo sempre detto, non è un grande film, proprio come l’Oscar 2014 che ha tagliato fuori per spocchia perbenista (premiare un orrendo truffatore pure tossico giammai) dal suo palmarés il film più grande, quello sì, dell’anno, The Wolf of Wall Street non è da ricordare. Sorrentino che ringrazia Martin, il vero sconfitto, e lo mette tra i suoi modelli di ispirazione insieme a Maradona fa quantomeno sorridere. Della spregiudicatezza da fantasista dell’uno e dell’altro il «suo» Jep Gambardella ha ben poco, immerso nell’istante che racconta su esso scivola, pontifica, gode. E persino l’amarezza – se mai ce ne è – del dandismo sgargiante come le sue giacche appare compiaciuta.
Poco importa però. Stiamo parlando di Oscar e di Grande spettacolo ( e Bellezza). Dell’Italia che piace all’estero, e che conquista Hollywood. L’Italia del buon cibo, dei monumenti antichi, mica quella «reale» che non interessa nessuno. L’Italia della commedia umana, del berlusconismo, dell’imbroglio. Delle mazzette, dei nobili, dei preti e dei cardinali. Ma, appunto, anche della «bellezza» di chiese e palazzi. Di un caos e di una meraviglia fantasmagorici di cui Roma nel mondo è l’emblema assoluto. Il nostro Jep insegna.
Del resto: non è sempre e solo questa l’immagine italiana da esportazione? Difatti in platea l’elegante pubblico degli Oscar è stato immortalato mentre addenta una bella fetta di pizza, italianissima ovviamente, con sorrisetti goduriosi – sarà stata di gomma ma che vuoi, così siamo tutti un po’ italiani.
Ecco. Sorrentino con la sua Grande bellezza ne celebra i fasti di quell’Italia lì, mettendosi sotto l’ala protettiva di Fellini, il genio del made in Italy immaginario per antomasia, della nostalgia rassicurante di un cinema che è diventato mito, e che soprattutto non disturba, esattamente come non disturbavano i baci di Tornatore nel Cinema Paradiso o i soldati italiani persi nel Mediterraneo di Salvatores – per citare gli altri Oscar italiani. Lì era un sentore di neorealismo, un po’ di cartolina, la proiezione di un desiderio nel quale è impossibile ormai distiguere il «falso» dal «vero». Che poi Fellini lo inventasse un mondo, una Roma, una realtà prima con l’immaginario e Sorrentino non inventa nulla sono dettagli secondari. Qui e oltreoceano.
Nel «Forza Italia», l’Oscar è già diventato il toccasana per ogni malattia e distorsione del cinema italiano, produzione, distribuzione, esercizio. Per l’asfissia del nostro mercato, dove tanti film anche alcuni nella cinquina del film straniero neppure arrivano, dove gli italiani appena eccentrici (non c’è bisogno di andare lontano) in sala non trovano spazio. Non è così, non sarà così senza una politica culturale chiara, e finalmente efficente, lo sappiamo bene. Ma la retorica a questo serve e all’illusione tutti vogliono crederci.
I film di Sorrentino, poi, sono macchine perfette nell’accarezzare il desiderio social di partecipazione, popolari nel senso letterale della parola, perché tutti-proprio-tutti, anche i detrattori, come dopo un mega match della nazionle, vogliono dire la loro. É una dote, bisogna dirlo, che va al di là del film in sé, e dichiara la capacità di un regista, e del suo lavoro di porsi come un evento: non si parla d’altro. Accarezzando in questo caso lo stesso narcisismo del vuoto che vorrebbe criticare. Che poi questo sia «il cinema italiano» è da dimostrare. Non lo è, è chiaro, ma alla logica dell’evento con cui ormai si identifica la cultura da noi basta. Domani come diceva qualcuno è un altro giorno, e per ora è meglio credere a una « Grande Bellezza».