Tutti i commentatori non hanno potuto fare a meno di rimarcare che la vittoria nettissima del centro sinistra nelle recenti elezioni è offuscata dal tracollo ulteriore della partecipazione al voto. Commentando i risultati del primo turno, con un astensionismo prima mai registrato e guardando al ballottaggio, osservavamo come il rischio più grosso fosse nella caduta della speranza che il Movimento 5 Stelle potesse cambiare la situazione, e così diventare definitivo il distacco dalla politica con il consolidamento di questi livelli di astensione.

Adesso che quella nostra previsione sembra essersi avverata in peggio, sarebbe il caso aprire una riflessione più approfondita e, soprattutto, ben oltre le questioni di bottega dei singoli partiti. Certo il centro sinistra ha vinto nettamente, e questo è di per sé un fatto positivo, ma l’astensione ha caratteristiche nuove che vanno indagate e non accantonate.

E’ vero che l’astensione in Italia è in costante aumento dagli anni ’70 ed è vero che rispetto agli altri paesi europei non siamo messi così male, ma questi non possono diventare luoghi comuni comodi per non affrontare il problema. Precisiamo, innanzitutto, che se è vero che c’è un trend di diminuzione, è anche vero che alle politiche di febbraio ed alle recenti comunali c’è stato un tracollo ben più forte rispetto alle tendenze di lungo periodo e che questo è accaduto in presenza di una offerta politica più ampia grazie al M5S (se non ci fosse stata questa presenza l’astensione sarebbe stata più alta).

In secondo luogo, a chi sostiene che l’astensionismo è un fenomeno connaturato alle democrazie mature, va ricordato che a fronte del 75,1% di votanti in Italia alle recenti politiche in Belgio ha votato l’89,2%, in Danimarca l’87,7%, in Svezia l’84,6%, in Austria l’81,7%, in Francia l’80,3%. E questi non sono certo paesi meno maturi del nostro. Se poi si guarda alla percentuale media di votanti dal 1990 al 2013 si scopre, come ha fatto l’Istituto Cattaneo, una diminuzione, in Italia, di 8,5 punti, mentre in Danimarca, Svezia, Finlandia sono addirittura aumentati ed in nessuno dei 14 principali paesi c’è stata una flessione come nel nostro paese. Quindi sarebbe il caso di smetterla con le argomentazioni di comodo per cui più ci asteniamo più siamo moderni e maturi!

Certamente, per tornare al richiamo iniziale, i minori voti presi dal M5S rispetto alle politiche hanno alimentato l’astensione. Essi vanno letti in parte, credo minima, come disillusione da parte di chi si aspettava una maggiore incisività politica in termini di cambiamento ed in buona parte come fenomeno naturale: un movimento appena nato, non radicato nel territorio e fortemente caratterizzato da una protesta generale contro i partiti nazionali, nelle elezioni comunali, paga un prezzo.

Ma c’è un’ultima considerazione, forse più importante, che andrebbe fatta. Già nelle elezioni regionali siciliane era emerso che l’astensionismo aveva colpito più pesantemente il centro destra che aveva sempre gestito il potere sfruttando il legame tra gestione del potere e costruzione del consenso nelle varie forme che il voto di scambio assume. In quelle elezioni gli elettori hanno preso atto che era finita un’epoca, quella della spesa clientelare, e ne avevano tratto le conseguenze ritraendosi dal voto.

Questo fenomeno è solo siciliano? Non è che, seppure in contesti ben diversi, i riflessi della crisi economica e della finanza pubblica rischiano di contribuire al fenomeno dell’astensione negli altri territori del paese? Cioè che la catena di dipendenza dalle politiche di austerità dell’Europa a quelle dello stato italiano che si trasmette a livello locale, con il blocco della possibilità degli enti di agire ed investire per il territorio, stia svuotando agli occhi dei cittadini il valore dell’istituzione locale? La domanda non dovrebbe, a mio parere, essere sottovalutata.

Innanzitutto perché non si tratterebbe solo di un vulnus ai partiti, ma ad istituzioni fondamentali e più vicine ai cittadini: abbiamo visto, infatti, cadute di partecipazione al voto in tutte le regioni ed in comuni grandi e piccoli con amministrazioni ben diverse da quelle della Sicilia di centro destra.

In secondo luogo perché se prendiamo atto che le politiche di austerità e di centralizzazione delle scelte a livelli sempre più lontani dai cittadini svuotano inevitabilmente istituzioni locali e democrazia nasce un problema enorme: ci rassegnano ad un sostanziale declino di queste istituzioni che hanno svolto prevalentemente una funzione di amministrazione della spesa pubblica? O ricostruiamo una funzione nuova che vada oltre la semplice amministrazione e li ripensiamo profondamente come i promotori di un nuovo sviluppo che parta proprio dai territori e che animi tutte le risorse umane e fisiche presenti e che le muova non solo per amministrare un territorio, ma per governarne la trasformazione? Ed allora con quale nuovo rapporto con i giovani, con le forze sociale e culturali, con gli imprenditori singoli ed associati, con quali nuovi strumenti?

Insomma, di fronte alla crisi dei comuni, occorre sì fare in modo che la crisi finisca, premere perché l’Europa allarghi i cordoni delle borse e si possa riprendere a spendere e ad investire, ma occorre forse qualcosa di più: reinventare forse l’istituzione come una figura nuova di «imprenditore del territorio» – cosa che solo in poche realtà si sta cercando di fare – in grado di progettare il futuro, mobilitare energie, ridare fiducia e speranze, coinvolgere forze sociali ed energie imprenditoriali.

Sarebbe bene che anche di questo si cominciasse a discutere nella fase congressuale che investirà le forze di sinistra.