Vi è una premessa da considerare, di contro all’abitudine per cui con la fine della guerra si crede che cessino definitivamente le violenze. Afferma il pubblicista e studioso Keith Lowe che «la storia dell’Europa subito dopo la guerra non è principalmente un storia di ricostruzione e riabilitazione, ma è piuttosto e soprattutto una storia di sprofondamento nell’anarchia». Le immagini di una capitale europea come Varsavia, distrutta nella sua quasi totalità, e per molto tempo luogo di macerie e rovine, dicono forse di più di tanti discorsi. Di prassi, a partire dai manuali di storia, alla conclusione di un conflitto così catastrofico quale fu la Seconda guerra mondiale corrisponde, in immediata successione, la descrizione dell’avvio della fase di ricostruzione. Rari sono i richiami agli effetti diretti del conflitto, se non nei termini di conta delle spoliazioni, delle distruzioni e dei morti.

È un riscontro di ciò che è venuto a mancare, tra le cose e le persone. Non di quello che di lì in poi verrà a sua volta a cadere nella rete di una distruzione supplementare, che si accompagna invece alla fine del conflitto armato non solo come sua coda velenosa bensì come ulteriore e irrinunciabile modalità di riequilibrio tra le parti. Così facendo, tuttavia, la narrazione storica salta spesso a piè pari il problema, in sé capitale, della delicata transizione dagli assetti bellici a ciò che ad essi sopravviene, ma solo nel corso del tempo, in quanto forma stabile di nuova organizzazione delle comunità nazionali. Soprattutto di quelle vinte. Laddove si verificano, invece, una pluralità di fenomeni non facilmente etichettabili, rispondendo tutti alla rottura e all’estinzione dei vecchi ordinamenti (politici, istituzionali ma anche economici, sociali, culturali e, a volte, demografici) nel mentre quelli nuovi faticano non solo ad affermarsi ma, prima ancora, a definirsi.

Spazi da ridisegnare

È una fase variamente durevole, condizionata da molti fattori, che spesso viene etichetta come «resa dei conti» ma che non è solo riconducibile alla rivalsa degli aggrediti contro gli oramai sconfitti aggressori. Tratto comune, che ha interessato buona parte dei territori europei che furono campi di battaglia, è allora il passaggio repentino, senza interruzione, dalla violenza legalizzata, ossia istituzionalizzata perché compiuta nel nome di uno Stato sovrano, alla violenza anarchica delle parti in lotta, variamente organizzate. Si tratta di un fenomeno sistematico, che non solo risponde ad una potente scarica pulsionale della collettività, così come al ritorno a forme elementari, dirette, ossia senza filtro, di giustizia redistributiva dal basso, ma anche ad un effetto di fondo voluto e cercato dalle stesse autorità dei paesi vincitori, che con ciò ottengono una riconfigurazione di spazi, confini, culture e popolazioni senza dovere necessariamente intervenire con risorse proprie. Ne parla, con ampiezza di dati e dovizia di riscontri per l’appunto Keith Lowe, autore de Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale (Laterza, pp. 498, euro 25).

Il nesso tra vendetta e abitudine al ricorso alla forza si rivela una miscela tragica dal momento in cui i contenitori istituzionali che, in qualche modo, convogliano le spinte aggressive in strutture organizzate, vengono meno. Poiché non solo si rompono le residue inibizioni ma nessuna figura terza, sovrana, si frappone ora tra le due parti in contrapposizione, modulandone intensità, criteri e quindi limiti nel conflitto in corso. L’interregno tra ciò che fu e quel che sarà è quindi costellato di riassestamenti repentini e di drastiche riconfigurazioni a danno, perlopiù, delle popolazioni civili della parte soccombente. Alla violenza politica contro gli sconfitti si sommano allora gli episodi di vera e propria guerra civile, il saccheggio sistematico delle risorse altrui, la sopraffazione del corpo delle donne del «nemico», gli episodi di sistematica pulizia etnica.

Una natura «sterminazionista»

Non si tratta di una questione di conta dei torti e delle ragioni, come invece troppo spesso la polemica spicciola, riprendendo brandelli della storia collettiva e delle memorie individuali, va facendo, bensì della ricostruzione delle traiettorie belliche e della comprensione che la guerra non si conclude con la fine dei combattimenti.

La violenza non si chiude, come fosse un rubinetto, nel momento in cui sono venuti meno i soggetti collettivi, a partire dagli Stati e dagli eserciti, che sono «legittimati» a farvi ricorso. Prosegue semmai come forma atipica, e quindi assai più pervasiva e rancorosa, di lotta tra parti contrapposte, segmentate, cancellando la nozione di diritto condiviso (ossia di norma comune), che pur vige anche nel conflitto armato, sostituita da una sorta di anarchia controllata, ovvero comunque indirizzata verso mete politiche.

Ad accentuare questo aspetto, quanto meno alla fine della Seconda guerra mondiale, era stata senz’altro la natura imperialista e sterminazionista della condotta delle potenze dell’Asse, ed in particolare della Germania, nei confronti dell’Est europeo. Laddove la predatorietà di un conflitto non solo di conquista e di sopraffazione ma anche di drastico ridimensionamento socio-demografico dei territori occupati si accompagnava alla rifeudalizzazione razzista dei rapporti sociali ed umani, apertamente propagandata dal nazismo come la prospettiva in divenire di un nuovo modello di organizzazione continentale.

Lowe registra, enumera, resoconta e mette in relazione la complessità e la pluralità degli eventi che connotarono, dal 1944 in poi, quando il declino e poi la sconfitta della Germania in Europa si fecero evidenti, il ridisegno civile, culturale, etnico e demografico che andò determinandosi. Ne fa un repertorio ampio, che sfugge alla semplice causalità del bisogno di vendetta, che pur non mancò di certo ma che da sé spiega solo alcuni dei molti fenomeni di quegli anni, demandando semmai alle dinamiche e agli effetti di lungo periodo dei riassetti avvenuti prima e durante la guerra stessa.

Contava senz’altro il bipolarismo ideologico che veniva sostituendosi al tramonto dei modelli fascisti ma, ed è questo un punto che non deve sfuggire al lettore, soprattutto si confermava la brutalità intrinseca a società di massa, dove alla mobilitazione bellica seguì una non meno intensa fase di riassorbimento della violenza attraverso virulente lotte intestine, dove ad essere messi in discussione non erano solo i luoghi e i soggetti classici della sovranità nazionale ma anche le relazioni e i confini tra gruppi sociali, comunità nazionali, ceti e classi.

In una trincea infinita

Il riferimento d’obbligo è ad un altro dopoguerra, quello lungo e non meno tragico che si accompagnò la fine della Grande guerra, quanto meno fino al 1921, con le clamorose e catastrofiche violenze intercorse nell’Est europeo tra le truppe bianche, anticomuniste, e quelle del nuovo regime sovietico. Quelli, insieme alle trincee e ai conflitti di logoramento su base industriale, furono i luoghi e i contesti di incubazione di una concezione della politica dei fatti compiuti come prosecuzione delle lotte sui campi di battaglia. Da questo punto di vista, le nozioni di «guerra civile», di «deportazione», di «pulizia etnica», come altre ancora, assumono una funzionalità interpretativa che ci restituisce del fatto bellico la sua durata, ben al di là dei soli episodi di guerra guerreggiata.

L’Europa, ci ricorda l’autore, solamente tre generazioni fa era questa cosa qui, non altro.