Non appare per nulla fruttuoso un dibattito sulla Grexit di Schauble o di quella di Varoufakis. Sarebbe comunque deviante o riduttivo del problema reale dell’Europa reale. Nel mondo economicamente globalizzato le entità soggettive statali o interstatali, se non hanno dimensione continentale o almeno sub-continentale (Brasile, India, Russia) risulteranno sempre subalterne o soffocate.

Per la sinistra poi, la lotta al capitale è perduta in partenza se non la si conduce nei grandi spazi, quegli stessi su cui il capitale estende il suo il dominio.

La questione dell’Europa è quindi l’Europa come continente e come realtà istituzionale costruita dalla serie di Trattati, che vanno da quello di Roma (1957) a quello di Maastricht (1992) a quello di Lisbona. Trattati sempre più ambiziosi, sempre più estensivi e acquisitivi di poteri erosi dalle sovranità popolari degli stati.

È del tutto evidente che, (come notava Perrone su questo giornale qualche giorno fa) la Grecia della Syriza e di Tsipras ha messo in discussione l’intero impianto europeo dimostrando empiricamente la verità dell’Ue. La avevano già rivelata gli europeisti anti Ue – tra i quali chi scrive – constatando che i Trattati europei avevano prodotto un aggregato di storture istituzionali per renderle esattamente ed esclusivamente funzionali all’assolutismo di una dottrina economica, il neoliberismo, ideologizzato per definire e legittimare la fase attuale del capitalismo. Un aggregato per di più costrittivo e massimamente restrittivo dell’autonomia dei suoi stati membri.

Da qui la domanda: come si esce da più di mezzo secolo di storia di una legiferazione incessante, massiccia, diretta a imporre con migliaia e migliaia di regolamenti, direttive, decisioni e pareri la «naturalità» del mercato? Lo chiamano acquis communautaire.

Non ha certo accomunato i popoli nell’eguale trattamento, nei diritti sociali concretamente vissuti. Due soli meriti gli vanno riconosciuti.

Uno è quello di aver ravvicinato i popoli europei e in modo non revocabile mediante l’affermazione di rapporti interindividuali scaturiti dalla libertà di movimento di persone (oltre che di capitali) tra i vari stati.

L’altro, e va detto, della massima rilevanza, è quello di aver espunto, per sempre, anche come ipotesi remota, la possibilità stessa della soluzione bellica dei conflitti tra gli stati europei.

Resta ed è stata però anche potenziata, tra i mezzi di soluzione dei conflitti tra gli stati membri dell’Ue, un’arma impropria di repressione e di distruzione di massa, l’euro. È sull’euro, quindi, che va impostata ed approfondita la riflessione.

Certo, come ogni altra moneta, l’euro è strumento neutro. Conta il soggetto che ne decide la quantità disponibile, che ne fissa le modalità dell’impiego e ne impone la destinazione. È il contesto istituzionale nel quale può operare che ne statuisce la funzione e ne determina gli effetti. Ebbene, nell’Ue il contesto istituzionale corrisponde esattamente, specificamente ed esclusivamente al soggetto che ne decide la quantità in circolazione, le modalità d’impiego, la destinazione. Che ne fissa con la massima forza giuridica il ruolo e ne precostituisce gli effetti. Mai sovrastruttura istituzionale fu concepita e realizzata per essere così rigidamente compattata con la struttura economica su cui poggia.

Mai una entità geopolitica ha assunto come suo fondamento una dottrina economica che ne colloca il sovrano al di fuori di sé, definendolo normativamente e traendone la legittimazione. Vi hanno provveduto i trattati europei proclamando l’assoluta sovranità del mercato e munendolo delle forme idonee e dei modi efficaci per esercitarla. Determinando e denominando (artt. 119-120 del TFUE) il tipo di economia che il mercato deve realizzare, specificandone il carattere nella libera concorrenza, qualificando tal tipo di economia come principio da dispiegare nella dinamica dell’ordinamento come compito del suo apparato istituzionale e come ragion d’essere dell’Ue.

È questo principio che bisogna abbattere, respingere, dissolvere insieme e forse prima ancora di disegnare politiche monetarie ed economiche socialmente virtuose che, a sistema istituzionale invariato, sarebbero fatalmente precluse o frustate.

Sia chiaro. Non si sta proponendo una palingenesi. Si sta solo chiedendo di non incatenare il futuro. Distruggendo le conquiste sociali del Novecento.