Intorno alla seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso uno tra i grandi temi del dibattito letterario internazionale ruotava intorno alla morte del romanzo. Ma nella remota Colombia, tagliata fuori dai circuiti ufficiali, non era ancora arrivata notizia delle esequie di questo grande genere letterario della società borghese, sulla cui definizione si erano cimentati illustri teorici, da Hegel, fino a Lukács e a Goldmann.

Fu così che uno scrittore ormai vicino ai quarant’anni si permise di pubblicare nel 1967 un romanzo titolato Cent’anni di solitudine, dopo altre prove narrative notevoli, rimaste circoscritte a un pubblico ridotto e che sarebbero state recuperate solo successivamente, per l’effetto trainante del successo clamoroso di quel testo. Romanzi come Foglie morte (La hojarasca), Nessuno scrive al colonnelloLa mala ora e raccolte di racconti come I funerali della Mama Grande, venivano letti come momenti preparatori di una grande sintesi, ma anche apprezzati nel loro valore autonomo.

Ho ricordato quella congiuntura culturale, proprio perché il «segreto» di García Márquez è stato, in fondo, abbastanza semplice. Ignorando le sofisticate elucubrazioni delle teorie critiche à la page, lo scrittore colombiano aveva riscoperto l’elementarità e l’universalità del gusto di raccontare una storia.

Del resto, la struttura del suo romanzo poteva richiamare le saghe, da quelle antiche al modello contemporaneo offerto dai romanzi di William Faulkner. Ma poteva con la stessa legittimità, per un altro tipo di lettori, evocare – portandole a un livello letterario raffinato – le suggestioni della telenovela, con il suo gusto per la proliferazione infinita dei personaggi. Da questo singolare connubio di alto e basso era scaturito un autentico miracolo: riunire in tutto il mondo, intorno alle sue pagine, il lettore colto e quello ingenuo.

A partire da allora intere biblioteche sono state scritte su quel romanzo e in generale sull’opera di García Márquez, sopravvissuta gloriosamente a quel bombardamento a tappeto. Uno tra gli omaggi più caldi e profondi tributati al suo capolavoro sta in alcune righe che gli dedicò, a ridosso della pubblicazione, un altro grande scrittore ispanoamericano della generazione anteriore, José María Arguedas, nel suo ultimo romanzo, La volpe di sopra e la volpe di sotto, rimasto inconcluso per il colpo di pistola con il quale l’autore pose fine alla sua vita.

Nel primo dei «Diari» che si alternano con la narrazione c’è una sorta di resa dei conti, spesso aspra, con i suoi colleghi latinoamericani che stavano costruendo quello splendido episodio di liberazione culturale, che sarebbe poi stato malamente chiamato «boom». Ecco come Cent’anni di solitudine viene salutato: «Non parlerebbe così quel García Márquez che assomiglia molto a donna Carmen Taripha, di Maranganí, presso Cuzco. Carmen raccontava al prete, di cui era perpetua, storie interminabili di volpi, dannati, orsi, bisce, ramarri; imitava quegli animali con la voce e con il corpo. Li imitava così bene che la sala della canonica si trasformava in caverne, in boschi, in pune e gole dove risuonavano lo strisciare della serpe che fa muovere piano le erbe e gli stecchi, il parlare della volpe un po’ scherzoso e un po’ crudele, quello dell’orso che è come se avesse della farina impastata in bocca, quella del topo che taglia con il suo filo anche l’ombra; e donna Carmen camminava come una volpe e come un orso, e muoveva le braccia come una serpe e come un puma, faceva anche il movimento della coda; e ruggiva proprio come i dannati che divorano gente senza mai saziarsi; così la sala della canonica era qualcosa di simile alle pagine di Cent’anni…».

In Italia il successo del romanzo, tradotto tempestivamente, fu immediato, sebbene non mancassero fenomeni di incomprensione da parte di intellettuali, anche illustri, ma legati inesorabilmente agli schemi eurocentrici, che non capirono come García Márquez facesse irrompere un mondo letterario irriducibile a criteri di giudizio elaborati a partire da un altro contesto.

L’appropriazione indebita avvenne anche attraverso l’impiego quasi ossessivo di categorie come quella del «realismo magico», destinata ad avere un grande successo e quindi ad agire negativamente non solo sui lettori, ma addirittura sugli stessi scrittori ispanoamericani più giovani, molti dei quali cominciarono a cavalcare astutamente l’onda del successo, offrendo spesso prodotti stereotipati che venivano incontro all’eterno bisogno di esotismo del mondo egemonico. La letteratura ispanoamericana aveva già anni prima creato un possibile antidoto per questi fraintendimenti, attraverso la categoria del «reale meraviglioso» enunciata dal cubano Alejo Carpentier nel prologo al suo straordinario romanzo Il regno di questo mondo, ambientato ad Haiti negli anni della rivolta della popolazione africana che aveva dato vita al primo stato indipendente dell’America cosiddetta Latina. Dopo essere passato, come altri grandi scrittori di quell’area, attraverso l’esperienza surrealista parigina, Carpentier aveva capito che nell’abnormità dei fenomeni latinoamericani, da quelli fisici a quelli sociali, c’era una fonte propria di meraviglia che rendeva obsolete le ricette intellettualistiche prodotte nel vecchio continente.

Capii tutta la portata di quella dichiarazione d’indipendenza (non di autarchia) quando, pochi anni dopo l’uscita di Cent’anni di solitudine, nel mio primo viaggio in Colombia, potei consultare nelle emeroteche i giornali degli anni Venti, dove si riferivano i massacri della compagnia bananera che compaiono nel romanzo, e che erano stati recepiti dalla critica e, più ovviamente, dal pubblico, come pura invenzione letteraria, partorita dai nuovi bestioni vichiani, tutti senso, stupore e fantasia. Non voglio proporre, è ovvio, un banale principio di verosimiglianza, ma indicare un esempio particolarmente significativo della dialettica fra storia e creazione letteraria che sta alla base di Cent’anni di solitudine e che spiega le sue molteplici possibilità di lettura, come succede con tutti i testi veramente grandi.

L’opera di García Márquez è proseguita fino alla vecchiaia, fra romanzi, racconti, cronache e memorie, con risultati alterni. Come in altri scrittori della sua generazione, che hanno sfruttato la loro rendita di posizione, il mestiere sempre più raffinato è prevalso molte volte sull’autentica invenzione. Vale anche, sebbene a molti suonerà come una bestemmia, per la sua prova più vertiginosa dal punto di vista dell’impegno stilistico, l’ingegnoso e sopravvalutato L’autunno del patriarca, un testo più adatto agli esercizi funambolici della critica e alle tesi dottorali che al godimento del lettore. Ma basterebbe la grande saga di Macondo, capace meritatamente di rinominare il paese di nascita di García Márquez, a garantire allo scrittore un posto nella letteratura destinata a durare nel tempo, oltre le mode editoriali e quelle create dalla critica.