Talvolta accade che ogni possibile circostanza contribuisca a rendere uno spettacolo a suo modo perfetto e indimenticabile. Così è in questi giorni con Les Troyens di Hector Berlioz in scena al Teatro alla Scala fino al 30 aprile: un’opera che, per la sua enormità e i costi che essa implica, lo stesso autore non ha mai visto eseguita integralmente. Ispirata ai primi quattro libri dell’Eneide di Virgilio, di fatto è la somma di due opere dotate di una loro relativa autonomia: La prise de Troie e Les Troyens à Carthage. La produzione, in tandem con Royal Opera Covent Garden di Londra, dove ha debuttato nel 2012, Vienna State Opera e San Francisco Opera, fa rivivere i fasti del Grand Opéra, assai poco praticato dai cartelloni italiani, risolvendo ogni difficoltà rappresentativa: i gigantismi, il prevalere del racconto sull’azione, le stasi liriche, i balletti.

Il regista David McVicar definisce ogni dettaglio scavando nel libretto dello stesso Berlioz, armonizzando svolgimento drammatico e pulsione descrittivo-introspettiva, supportato da un’eccellente cast di cantanti-attori. Le scene di Es Devlin descrivono nei primi due atti (La prise de Troie) le mura di Troia attraverso un’imponente struttura convessa in simil-metallo che si apre in due nel momento in cui fa ingresso nella città il cavallo dei Greci; nei tre atti successivi (Les Troyens á Carthage) una altrettanto imponente struttura concava in simil-terra descrive le mura di Cartagine .

Troia da fuori, Cartagine da dentro: dalla prima Enée è costretto a scappare, nella seconda viene accolto (anche se poi il fato lo farà scappare anche da lì). Plastiche le luci di Wolfgang Göbbel, che raffreddano e riscaldano lo spazio alla bisogna. I costumi di Moritz Junge contaminano l’immaginario archeologico con tenute ottocentesche (come è di moda, contemporanee all’autore). Le coreografie di Lynne Page rendono suggestivamente la scena della caccia e della tempesta che fanno da cornice all’innamoramento di Didon ed Enée. Straordinaria la direzione di Antonio Pappano, che riesce a restituire la oggettiva grandeur della partitura evitando ogni pericolo di retorica ridondanza. Il piglio asciutto e scolpito si apre, quando il dramma lo chiede, volta a volta alla deflagrazione del suono o alla tenuità estatica, alle tinte forti dell’eroismo o a quelle soavi dell’erotismo, i due poli tra cui si muove Enée e con lui tutta la vicenda.

Anna Caterina Antonacci è una grandissima Cassandre: ferina, posseduta dal nume, gestualità marcata da raptus, voce omogenea, morbida o aggressiva dove serve, fraseggio che non lascia nulla al caso, insomma una vera tragédienne. Daniela Barcellona scolpisce una Didon altrettanto convincente, al netto di qualche flebilità nel registro centrale, nel dipingere la forza travolgente di una passione che si trasforma ben presto in un dolore senza scampo. Gregory Kunde sorprende per la freschezza e prestanza vocale, che gli consente di risolvere sia i frangenti in cui Berlioz assegna a Enée una scrittura vocale chiaramente emula di quella impervia del Trovatore di Giuseppe Verdi, sia quelli di abbandono quasi femmineo alla passione, con mezze voci e piani trasognati. Da segnalare Fabio Capitanucci, un Chorèbe dalla voce sonora e timbrata sebbene qualche volta fuori controllo, Maria Radner, una Anna partecipe ma un po’ fioca, Giacomo Prestia, un Narbal imponente e il delicato Hylas di Paolo Fanale.