Una riforma al mese. Entro febbraio avviare le riforme costituzionali e la legge elettorale; a marzo il lavoro; ad aprile la pubblica amministrazione; a maggio il fisco; a giugno la giustizia. Questo il piano annunciato da Renzi all’accettazione dell’incarico di formare il nuovo governo. In questo calendario 2014 delle riforme, non figura al momento la questione economico-finanziaria.

Forse non è citata esplicitamente perché fare ripartire l’economia è la priorità alla quale legare ogni altra iniziativa.

Forse non è il caso di fare annunci perché i tempi sono invece più lunghi. O forse perché sull’economia c’è poco da dire. Uno dei primi commenti sulla nomina del nuovo ministro dell’Economia italiano è arrivato da Olli Rehn, commissario europeo uscente agli Affari economici e monetari e considerato uno dei falchi dell’austerità, secondo il quale «Padoan sa cosa si deve fare». Ha invece brillato per originalità il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il quale il giorno successivo dichiarava che «Padoan sa cosa si deve fare».

Ecco, forse non è necessario annunciare nulla in ambito economico. Di fatto non ci sono margini di manovra. È l’Europa che ce lo chiede, sono i mercati che ce lo chiedono, è la Troika che ce lo impone. Rimettere a posto i conti pubblici, tagliare la spesa, accelerare sulle privatizzazioni, continuare mansueti sul percorso tracciato dai governi precedenti.

In realtà dopo tre anni di austerità, non solo la disoccupazione ha superato il 12% e quella giovanile il 40%, non solo il paese si trova sempre più disuguale e sempre più impoverito sotto ogni punto di vista, ma il famigerato rapporto debito / Pil continua a peggiorare. Cosi come continua a peggiorare in tutti i paesi che sono passati dalle forche caudine dell’austerità. Persino il capo economista del Fondo monetario ha fatto l’anno scorso un clamoroso mea culpa riconoscendo che in particolare in un periodo di recessione, i tagli alla spesa hanno effetti prociclici, ovvero peggiorano ulteriormente la situazione.

Eppure a inizio 2014 da parte dei burocrati europei nessuna esitazione, nessun ripensamento. Non c’è alternativa all’austerità; abbiamo iscritto il pareggio di bilancio addirittura nella nostra stessa Costituzione; il Fiscal Compact non può essere rimesso in discussione; i vincoli europei su debito e deficit sono scritti nella pietra.

Se un quarto delle energie dedicate a imporre austerità e sacrifici agli stati e ai cittadini fosse stata spesa per chiudere il casinò finanziario che ci ha trascinato in questa situazione, le cose sarebbero probabilmente diverse, anche qui in Italia. A settembre 2013 l’eurocommissario Barnier annunciava che la Commissione voleva «ora affrontare la questione dei rischi insiti nel sistema bancario ombra». Cinque anni dopo il fallimento della Lehman Brothers e a sei anni dallo scoppio della peggiore crisi degli ultimi decenni, la Commissione, bontà sua, decide di affrontare la questione.

I problemi in Italia non mancano, a partire da un sistema bancario su cui gravano oltre 150 miliardi di euro di sofferenze e un totale di oltre 300 miliardi di crediti deteriorati, e che continua a chiudere i rubinetti del credito alle imprese.

Ma la partita più importante riguarda un’Europa che nel suo insieme deve «cambiare verso». «È l’Europa che ce lo chiede» è una foglia di fico sempre più inaccettabile. L’Europa siamo anche noi, e dobbiamo lavorare, da subito, per differenti politiche, tanto su scala continentale quanto qui da noi. Insistendo sulla necessità di investimenti di lungo periodo, di un piano per il lavoro, di sforare gli assurdi parametri europei per consentire una ripresa dell’economia nella direzione di una transizione ecologicamente sostenibile, di una modifica dei trattati di funzionamento della Bce e via discorrendo. Riconoscendo prima di tutto che l’austerità è il problema, non la soluzione, così come riconoscendo che i rischi maggiori vengono dalla finanza privata, non certo da quella pubblica.

Queste e altre dovrebbero essere le priorità del governo in materia economica. Rimane qualche dubbio sulla possibilità di portarle avanti per un governo che, come si affrettano a chiarire tanto dall’Europa quanto in Banca d’Italia, «sa già quello che deve fare».