Cos’altro deve succedere prima che ci si ponga seriamente il problema del ruolo del Parlamento? In questa legislatura è esplosa – nel disinteresse dei più – la sua crisi. Un organo parlamentare impotente, incapace di assolvere alle sue essenziali funzioni costituzionali.
Prima il pasticciaccio brutto dell’elezione del capo dello Stato, che si è concluso con un fatto mai accaduto in precedenza: la rielezione per un nuovo settennato del vecchio Presidente. Non può stupire più di tanto allora il rafforzamento del potere del capo dello Stato di fronte al vuoto decisionale del Parlamento.

In seguito la vicenda della formazione del governo delle larghe intese. Sul piano istituzionale l’effetto principale è stato quello di rendere l’esecutivo l’unico titolare della funzione di indirizzo politico e di rendere superfluo – anzi inopportuno – il confronto parlamentare. Una volta definito l’accordo in sede governativa, esso non può certo essere rinegoziato in Parlamento.
Rimane un’unica possibilità alle Camere: quella di non fare. Le ragioni dell’immobilismo parlamentare sono diverse e complesse, ma è evidente che un organo che può, nei fatti, esercitare solo un potere di veto, prima o poi sarà sopraffatto. E così è avvenuto. Nel caso della legge elettorale, impantanata nella discussione parlamentare e paralizzata dagli interessi contrapposti dei vari partiti e movimenti politici presenti in Parlamento, incapaci di giungere a una sintesi; alla fine s’è trovata una soluzione con la pronuncia della Corte costituzionale. Un intervento assai opportuno, reso necessario dall’inerzia del legislatore e dalla palese lesione della legalità costituzionale. Ora, in molti appaiono risentiti della decisione del giudice delle leggi, ma farebbero meglio a interrogarsi sul com’è potuto avvenire che un Parlamento non fosse in grado neppure di definire le proprie regole costitutive.
Da ultimo, la legge sul finanziamento ai partiti politici. Una legge che – a fatica – era in discussione al Senato e aveva già passato il vaglio della Camera. La questione del finanziamento delle formazioni politiche è, in verità, assai controversa, e dunque sarebbe stato utile, per giungere a un compromesso tra le diverse concezioni, un confronto, anche acceso, in seno all’organo della rappresentanza. E invece la debolezza del Parlamento, tanto più su un tema così sensibile, ha reso possibile al Governo, di intervenire in sua vece.
Non sembra che il Parlamento abbia granché protestato per questo intervento sostitutivo del governo. Eppure ne avrebbe avuto motivo. Avrebbe infatti dovuto rivendicare il proprio potere e ricordare che il governo, in assenza di una delega del Parlamento, può emanare decreti aventi valore di legge, solo «in casi straordinari di necessità e d’urgenza». Avrebbe almeno dovuto chiedere quale fosse l’urgenza di intervenire anticipando la discussione già prevista al Senato. Non lo ha fatto, e forse se ne intuisce la ragione: per timore di vedersi rispondere che l’«urgenza» era dettata dall’«impotenza» del Parlamento.
Un Parlamento preso a schiaffi. Che lascia il passo agli altri poteri (dal Presidente della Repubblica al governo, passando per la Corte costituzionale), ma incapace di reagire. A volte addirittura sollevato dalla supplenza di altri organi, che eseguono il lavoro “sporco” al quale esso è istituzionalmente preposto, ma che non riesce più a svolgere.
Ed è così, mestamente, che si assiste allo svuotamento progressivo delle forme rappresentative della nostra democrazia costituzionale. Ma quanto può sopravvivere una democrazia senza un Parlamento?
Distratti dal chiacchiericcio e dalla lotta per conquistare un posto al sole da parte del nuovo establishment, si rischia di non vedere il pericolo più grande: la degenerazione del parlamentarismo.