Il titolo è il nome di un fiore, Orchidee, il nuovo spettacolo di Pippo Delbono da stasera in scena nella capitale, al teatro Argentina, che inizia il nuovo anno senza ancora una soluzione ai problemi amministrativi, la nomina della direzione e del Cda. Racconta Delbono che questo titolo gli è venuto per caso, in un albergo romano, ascoltando la conversazione tra due signore. Una diceva all’altra di avere a casa molte orchidee, alcune vere e altre finte, e che quando veniva qualcuno a trovarla sperava sempre che toccasse quelle vere – «Sai come è – spiegava all’amica – mi seccherebbe che sentissero proprio quelle di plastica».

Lui, Delbono, alla casualità delle cose ci crede. «Ero nel vortice della creazione, in uno stato sospeso tra lucidità e confusione, non riuscivo a trovare un titolo. L’orchidea è un fiore ambiguo, può apparire persino mostruoso, è un fiore che rimanda alla sessualità, agli organi genitali, al mito. Ha tante varietà, è bellissimo ma non sai mai, appunto, se è vero o no e per questo l’impulso di toccarlo è quasi irresistibile. Lo spettacolo gira intorno a questa relazione tra il vero e il falso, che poi è un modo per affrontare il nostro tempo. Ho la sensazione oggi di vivere in un mondo che non sai mai cosa è vero e cosa è falso».

Siamo in un viaggio, come sempre con Delbono, punteggiato da tante e diverse situazioni, sentimenti esclusivi, dolori privati e universali, la perdita di chi si ama e i paradossi del nostro mondo. La rabbia, la dolcezza, il grido e il sussurro, le rovine di un contemporaneo immerso in luci e ombre. I paesaggi di Delbono sono poesia di una prima persona esasperata, e politica di un io che diviene noi.

«Orchidee si addentra nel mio tempo personale, nel tempo vissuto dalla mia generazione e in questo presente in cui ci siamo smarriti, dove sembra che abbiamo perduto ogni possibile direzione» . Il territorio è quello del corpo, della voce, del respiro, di un singhiozzo a volte soffocato, di un grido: quello di Pippo e dei suoi magnifici attori, Bobò e la sua impassibile ironia, Pepe e la sua dolcezza, Nelson, Gianluca, Mario … Stavolta però le immagini evocate dalle parole diventano «vere»: il cinema attraversa lo spazio scenico compiendo quasi una sintesi – seppure aperta – di quella poetica che l’artista declina nella sua ricerca tra cinema e teatro, film e spettacoli. E nelle immagini vediamo il mondo, o la sua apparenza, la mamma che muore mentre sentiamo lì, accanto a noi, quel dolore intenso che si fa poesia. Alcuni frammenti sono anche nel suo nuovo film, Sangue (che uscirà in distribuzione indipendente mentre in Francia la precedente opera del regista Amore e carne è nelle top 10 2013 di Le monde…) , presentato in concorso allo scorso festival di Locarno tra molte (e insopportabili) polemiche tutte italiane. Con Pippo, infatti, c’è Giovanni Senzani, il leader delle Br. Ma Sangue non è un film sulle Brigate rosse, e su quegli anni che in Italia continuano a essere «intoccabili» se non dentro alla retorica del giudizio – «buoni»/ «cattivi» – cosa che peraltro non aiuta a costruire un profilo storico complesso.

Sangue è un film sulla morte, e dunque anche su quegli anni, e sul presente del suo protagonista che non eluderà mai quel passato. È un film sulla perdita, la mamma del regista che muore, e sull’ostinata resistenza del figlio a non accettare quanto sta accadendo, Umana, umanissima. Terribile. Di fronte a lui c’è l’uomo che ha ucciso, e ora ha perduto la donna che amava e che ha aspettato per anni che uscisse di prigione. La Storia è lì, tra i dettagli di una mano che mentre ricorda tormenta l’altra. Nel funerale di Prospero Gallinari filmato tra la neve. In uno sguardo che non vuole giudicare ma che prova, nei dettagli, nei frammenti sparpagliati delle vite, a ritrovare qualche filo che dipani la complessità delle cose. «Il nostro tempo tende a semplificare, a rendere tutto lineare, ma la storia è molto più complessa di questo»

Rispetto a altri tuoi spettacoli, «Orchidee» «esibisce»apertamente il legame con l’immagine, che anzi è centrale nella narrazione. Cosa ha determinato questo passaggio?

C’è intanto la scelta del luogo, un grande schermo cinematografico, che porta con sé l’idea di un vuoto. Siamo lì a non guardare niente, il che in una sala cinematografica è abbastanza normale: prima che cominci il film lo schermo è spento, non c’è nulla da vedere, magari si mangiano i pop corn. Questo a teatro è invece abbastanza anomalo: ci sono dei corpi vivi, e stavolta ci sono anche delle immagini che dicono del bisogno di uscire dal teatro e di rivolgere lo sguardo altrove. Dove? Tra le persone che non ci sono più, sui cieli, sulla natura, nel mondo … In quei sogni che sono nel cinema, dove le relazioni tra le misure possono saltare all’improvviso. Per questo quando parlo, durante lo spettacolo, non sono mai sul palco ma in mezzo alla sala, nella platea, tra la gente. Il mio grido nasce lì. Forse è un segnale dell’importanza che il cinema ha preso nella mia ricerca artistica. Prima ancora però c’è l’esigenza di riflettere sulla crisi dell’attore in scena che non rappresenta più qualcosa di vivo. E allora guardiamo il vuoto, a me poi piace molto incantarmi davanti al mare o alle montagne- Anche se la legge del teatro dice che non si deve mai lasciare la scena vuota, e questo spettacolo la trasgredisce totalmente …È un po’ come quell’equilibrio tra vuoto e pieno che racconto in scena, quando parlo dell’Africa, dove i più non hanno nulla e però si avverte un senso di pienezza, e dell’Europa dove tanti hanno molto e invece sembra che vi sia solo il vuoto.

In che senso il rapporto tra il «vero» e il «falso» è uno dei riferimenti centrali di «Orchidee»?

È che oggi mi sembra di vivere in una specie di Grande fratello, dove domina uno strano gioco delle parti in cui tutto non si sa quanto sia vero o quanto sia costruito. Pensiamo alla politica italiana: questo mi mette addosso un sentimento di impotenza. Come dicevo prevale una diffusa regola della linearità; un tempo c’erano i grandi ideali, si combatteva contro la guerra del Vietnam, per un’utopia. Adesso non vediamo più nulla, tutto si confonde, o viene omologato. Si ha il terrore della complessità perché comporta contraddizioni, conflitti. Ma così non si capisce più la storia.È come un grande minestrone nel quale non riesci a distinguere i sapori, non sai quale è la carota o quale la patata. Ecco, io provo a tirare fuori di nuovo i singoli sapori, le singole verdure dalla minestra. Ma in quella che appare come una sorta di schizofrenia linguistica il modello narrativo tradizionale non può funzionare. Non possiamo affrontare la realtà con le categorie di un tempo, politiche, artistiche o via dicendo. Resta solo la possibilità del frammento, di un procedimento cubista che scompone e ricompone le cose in altra prospettiva. Mi viene in mente la frase, che trovo bellissima di Mandela: «Ho combattuto perché i bianchi non opprimessero i neri, combatto perché i neri non si opprimano tra loro». Orchidee, e più in genere il mio lavoro di artista, cerca di confrontarsi con questo stato delle cose.

«Sangue», il tuo nuovo film, che mi sembra particolarmente legato a Orchidee, ha scatenato un fuoco di critiche, per lo più in Italia, per la presenza di Giovanni Senzani. Come valuti, a distanza di mesi e dopo molte proiezioni, queste reazioni che tra l’altro si ripetono puntualmente ogni volta che si tocca quel periodo della nostra storia, il terrorismo, gli anni ’70?

Mi ha davvero colpito che dopo tutto quel casino iniziale, appena abbiamo iniziato a mostrare il film in giro, la gente negli incontri dopo la proiezione parlava di tutt’altro, della morte, del dolore e non delle polemiche. A volte credo che certe reazioni siano un modo per non affrontare quei punti oscuri nella nostra storia che devono rimanere tali. Le ragioni sono diverse. Per esempio un certo cattolicesimo malato che si attacca all’idea del pentimento e del perdono – come quando mi dicevano che Senzani non si pente nel film. Ma cosa vogliono, la sceneggiata televisiva? Mi ha raccontato la storia dell’omicidio Peci, e l’urlo che la sua vittima ha lanciato prima di essere ucciso, che non dimenticherà mai. In quegli anni le cose erano molto complesse, e quell’urlo che torna più di trent’anni dopo, in un film che vuole essere una esplorazione della morte, ci dice di un pentimento rispetto a sé stessi chiarissimo. Non sono un giudice, né mi interessa pormi come tale: cerco di guardare i dettagli delle cose, come gli occhi, le mani che si torturano una con l’altra mentre Senzani parla … Quando mi ha proposto di filmare i funerali di Gallinari gli ho risposto: «Lo ha fatto già Fassbinder in Germania in autunno… E poi almeno nevicasse!» Quel giorno ha nevicato, e io sono andato a filmare. Mi interessa seguire in modo poetico la Storia, fermarmi nei particolari, essere dentro e fuori, Perciò uso le telecamere leggere, un film come Sangue potevo farlo soltanto così. La solitudine è indispensabile per arrivare a un’intimità che diviene verità. Nel teatro è molto, moltodiverso, il tuo sguardo è quello che metti sulla scena, sei un po’ come un bambino che sta dentro al gioco e, contemporaneamente si guarda giocare.

La morte, in scena e nel film, è per te quella di tua madre che accompagni fino alla fine …Filmare la morte è anche questo è un territorio complesso.

È un tabù gigantesco far vedere la morte. Che poi è anche la morte della rivoluzione, la storia politica del nostro paese … Ma nella nostra cultura cattolica la morte assume un peso assoluto, che la circonda di una grande menzogna. La trasposizione nel paradiso, nell’inferno, nella gioia della vita eterna l’hanno privata di quella semplicità che è nella natura. Dove tutto muore, le giornate, le foglie come gli esseri umani.