Nel corso del comizio preelettorale conseguente alla condanna definitiva inflittagli dalla Cassazione, Berlusconi ha ribadito la sua visione dello stato di diritto all’interno del quale i poteri legittimi sarebbero solo il legislativo e l’esecutivo mentre quello giudiziario non sarebbe che un apparato burocratico di giudici/impiegati vincitori di un concorso con un semplice compitino scritto. Azzerato qualche secolo di civiltà giuridica, gli è venuto facile sognare il presidente Napolitano nelle vesti di un sovrano assoluto (legibus solutus) e così fargli chiedere dai suoi un salvacondotto o una agibilità politica, istituti inesistenti negli ordinamenti giuridici democratici ma facilmente confezionabili da un Luigi XIV redivivo. Svegliatosi dal sogno, il Cavaliere è ripiombato nell’incubo della pena principale da scontare inesorabilmente e, ancor peggio, di quella accessoria che lo priverebbe dello scudo senatoriale, l’ultimo scudo rimastogli dopo il fallimento di tutti i precedenti. E già, perché si potrà traccheggiare per un po’ sulla decadenza prevista dalla legge Severino immaginando di rimandare la palla alla Corte costituzionale, o si potrà contare per un po’ sulla falsa coscienza del Pd per la decadenza da conflitto di interessi, ma prima o poi arriverà la rideterminazione degli anni di perdita dei diritti civili e politici e allora non ci saranno né santi né traccheggi.

A meno che qualche senatore del Pd nel segreto dell’urna (così si maligna in giro) non decida, salvando il Cavaliere, di salvare anche il seggio, pur nella certezza di un definitivo affondamento del proprio partito.

A corto di munizioni, essendo troppo lontana nel tempo una amnistia e impossibile, date le forze in campo, una controriforma della giustizia che, appunto, renda irrilevante il potere giudiziario, Silvio Berlusconi sembra stia pensando di arringare la nazione con un grande discorso mediatico-parlamentare avente per oggetto i giudici complottisti ed eversori identificati in quelli di Magistratura democratica. Questo confondere la parte per il tutto è un vecchio trucco del nostro, anche per cercare di far dimenticare quanti giudici «politicizzati» ha reclutato nelle sue file e quanti, tra quelli che lo hanno qualche volta condannato (i famosi cinque della Cassazione, e non il solo Esposito come si vuol far credere) o gli hanno dato semplicemente fastidio (il senatore Felice Casson che, da giudice, non era iscritto nemmeno all’Associazione nazionale magistrati) fossero distanti da Md o estranei a logiche correntizie. Verso alcuni «giustizialisti» poi il Cavaliere dovrebbe serbare un po’ di gratitudine: pensi ai i dipietristi Scilipoti e Razzi che lo hanno salvato; e anche verso qualche giudice: pensi all’arcobaleno bis di Ingroia e Di Pietro che ha impedito al Pd di fare cappotto anche in senato.

E’ su Magistratura democratica comunque che il dente duole e lì la lingua del Cavaliere continua a battere inesorabile, dimenticando o ignorando che la magistratura italiana nel suo complesso, almeno dall’inizio degli anni Settanta, ha man mano acquisito una solida cultura di indipendenza ed autonomia dagli altri poteri, anche grazie all’azione di Md e non solo, e di questa cultura non vorrebbe disfarsi. Certo, del disastroso stato della nostra giustizia è responsabile innanzitutto la politica che, trasversalmente, non è mai stata in grado di affrontare i problemi strutturali (sui quali ci sono decenni di studi e intere biblioteche di volumi) e che ha perso quest’ultimo ventennio alla ricerca di soluzioni ai guai giudiziari di Berlusconi. Quanto all’immagine appannata della giustizia agli occhi del popolo sovrano in nome del quale viene amministrata, qualche responsabilità ce l’ha la stessa magistratura che, conquistata l’indipendenza «esterna» dagli altri poteri, si è poco curata dell’indipendenza «interna» cedendo a logiche correntizie sempre censurate però da buona parte della cultura democratica della sinistra.

In questo contesto una esaltazione acritica di Magistratura democratica quasi sganciata dal resto della magistratura è fuori luogo, e comunque bisogna tener presente che pian piano gli anticorpi per sconfiggere il corporativismo stanno emergendo. Un buon esempio da qualche anno lo sta dando l’Anm che è sempre intervenuta compostamente a consigliare il potere legislativo sui rimedi necessari e a censurare tempestivamente i comportamenti sopra le righe dei suoi associati: vedi da ultime le prese di posizione contro i giudici in politica o in amministrazione nello stesso distretto in cui esercitavano le funzioni o nello scontro la tra procura di Palermo e il Capo dello Stato.

Credo che sia stato proprio l’ancoraggio della magistratura ad una cultura costituzionale di autonomia dagli altri poteri a far maturare in larghi strati della società e delle sue rappresentanze parlamentari democratiche la determinazione, almeno fin qui conclamata, di rispettare e applicare le sentenze. Quanto all’indipendenza, interna ed esterna, come diceva anche Giuliano Vassalli, non servono riforme e leggi, ma solo una presa di coscienza individuale e collettiva dei giudici. Se però in parlamento passasse l’idea del colpo di spugna politico su una sentenza definitiva, allora rigetteremmo il paese nelle fauci berlusconiane e la magistratura nel ghetto del corporativismo, della collateralità e della subalternità al sistema di potere e non rimarrebbe che cancellare dalle aule giudiziarie la scritta «la legge è uguale per tutti».