L’identità di un popolo si fonda, da una parte, sul vincolo di valori comuni e, dall’altra, sull’ accettazione di un passato condiviso. La memoria culturale fa da ponte con l’oggi, favorendo – secondo la definizione dell’egittologo tedesco Jan Assman – la «struttura connettiva» di una società. La rimozione del ricordo, dunque, ci rende non solo più poveri di sapere ma ci condanna a una pena ben più onerosa: la perdita del senso di appartenenza, l’incapacità di trasformare l’immagine del sé in noi.

Tale processo, osservabile anche nell’Italia che boicotta gli studi classici e svilisce il suo patrimonio storico-artistico, è ancor più accentuato in paesi dove una triste sequenza di conflitti e atti terroristici ha lasciato ferite aperte e traumi indelebili, che si vorrebbero cancellare con l’artificio della menzogna.

Camus in cerca di radici

In Algeria, l’instaurazione di un’ideologia nazionalista post-indipendenza, ha portato al disconoscimento dell’eredità romana, negativamente associata alle esplorazioni ottocentesche delle truppe francesi e al rapporto – spesso infelice – tra il Maghreb e l’Europa. Il rifiuto delle radici latine è funzionale all’elaborazione di un’identità fittizia, che prende le distanze dal colonialismo ed escludendo dalla propria Storia i non-arabi e i non-musulmani, provoca una mutilazione culturale. Quella che Albert Camus – agli inizi della sua carriera letteraria – ebbe l’ansia di colmare, restituendo la consolazione dei miti a un popolo che sembrava esaurirsi nel presente. Le parole del celebre filosofo esistenzialista risplendono su una stele elevata dai suoi amici sullo sfondo del monte Chenoua, tra l’azzurro del mare e il giallo caldo delle pietre di Tipasa: «Io comprendo, qui, ciò che chiamiamo gloria: il diritto di amare senza misura».

Fu infatti nell’essai Nozze a Tipasa (1938) – narrazione nostalgica della giovinezza trascorsa in Algeria – che Camus esaltò lo sposalizio delle rovine con la primavera, nella cui armonia confessò di aver trovato la misura profonda di sé. In un successivo racconto – pubblicato nel 1953 e intitolato Ritorno a Tipasa – affiora invece la disillusione dinanzi alla sconfitta della bellezza, al filo spinato sopraggiunto a circondare i ruderi alla stregua delle tirannie, della guerra e della morale, venute a chiudere per sempre l’età dell’innocenza. Inserita dal 1982 nella lista del patrimonio dell’umanità, l’antica città romana di Tipasa – impiantatasi sul luogo di un emporio fenicio – si staglia su due colline rocciose, separate dal porto di epoca moderna.

La sparizione di Tipasa

Una rigogliosa vegetazione arborea adorna strade e monumenti, accompagnando il visitatore sulle alture del foro e fino al promontorio che guarda a Occidente. Là, verso l’orizzonte del Mediterraneo, si affacciano alteri i resti della Villa degli Affreschi e le arcate delle basiliche paleocristiane: «c’è un tempo per vivere e un tempo per testimoniare di vivere», scriveva ancora Camus in Nozze. Ed è amaro constatare come, a Tipasa, il valore della testimonianza non sia adeguatamente preservato. Nel 2002, a causa del degrado e della crescente speculazione edilizia, il sito venne segnalato dall’Unesco fra quelli in pericolo di disparizione e a tutt’oggi il rischio non è stato scongiurato. All’ingresso del parco, la costruzione di un ristorante insinua con prepotenza le volte di un complesso termale. Nell’attiguo giardino archeologico, stele riverse, bassorilievi sfigurati e capitelli sormontati da rifiuti mostrano la miseria del vandalismo e dell’incuria. Sulla collina orientale – detta di Santa Salsa, dal nome della martire che, secondo la leggenda, vi fu sepolta nel IV sec. d.C. – si sviluppò una delle più vaste necropoli della tarda antichità: un’immensa distesa di sarcofagi aperti al vento, ora meta indisturbata di bivacchi.

Lacerata dalle distruzioni e dagli sconvolgimenti urbanistici dell’occupazione francese, anche la città numida di Iol – ribatezzata Caesarea da Giuba II in onore dell’imperatore Augusto e capitale della Mauretania Cesariense sotto Caligola – sembra aver ceduto l’anima all’oblio. Persino le statue delle divinità che ne decorarono un tempo i sontuosi edifici, soffocano nel cellofan di restauri mai ultimati. Stessa sorte – nella dimenticanza – affligge Lambaesis, formatasi nel I secolo d.C. come distaccamento della legione III Augusta e sede del comando militare romano in Africa. Il municipium di veterani, divenuto colonia sotto Settimio Severo, è assediato da cespugli e rovi che ne occultano muri e mosaici.

A metà del XIX secolo, sulle vestigia del castrum fu edificato un penitenziario e oggi solo il cosiddetto pretorio si eleva grandioso dalle sterpaglie, quasi a sfidare l’indifferenza. Con cadenza annuale, i siti di Cuicul/ Djemila e Thamugadi/Timgad – entrambi insigniti del prestigioso «marchio» Unesco – balzano invece agli onori della cronaca. Attraverso l’organizzazione di eventi musicali, il Ministero della Cultura persegue ufficialmente l’obiettivo di sensibilizzare le popolazioni locali alla protezione del patrimonio archeologico. Il discutibile scopo pedagogico di tali iniziative ha però avuto, fino adesso, esiti controproducenti.

L’installazione di un’impalcatura di metallo e cemento sul piazzale dei Severi durante il Festival di Djemila ha arrecato danni incommensurabili. Il più clamoroso è il crollo parziale della scalinata del tempio dedicato alla gens Septimia. Malgrado nel 2012 le proteste di numerosi attivisti della società civile portarono alla delocalizzazione della kermesse nella vicina Sétif, nel 2013 gli spettacoli si sono svolti nuovamente a Cuicul. E se per il Camus de Il Vento a Djemila (1939) il mondo finisce sempre per vincere sulla Storia, di «questo grande grido di pietra che Djemila getta tra le montagne, il cielo e il silenzio» sentiamo anche noi la disperazione e la malinconica poesia.

Nonostante le appassionate battaglie che l’archeologa Nacéra Benseddik porta avanti da decenni, un destino di cemento si è abbattuto sul sito di Thamugadi, che dal lontano 1967 accoglie il Festival di Timgad. Col pretesto della sicurezza (un rapporto dell’Unesco datato al 2009 sottolineava già i rischi di un afflusso massiccio di visitatori in occasione della rassegna) una copia della scena del teatro romano è stata innalzata su un’area non scavata, pregiudicando future ricerche.

Labili tracce

Non meno gravemente, l’abuso edilizio ha sfigurato il paesaggio predesertico dei monti Aurès che incorniciano la colonia di Traiano, una fra le più maestose e seducenti Roma d’Africa. Nessuna indulgenza neanche per Ippona – celebrata col nome di Hippo Regius, la Reale – dove s’incamminarono gli ultimi passi del vescovo Agostino, dottore e padre della Chiesa. Proprio qui, nel 1996, fu trafugata la maschera in marmo bianco di una Gorgone di trecentoventi chilogrammi di peso. Ritrovata nel 2011 in Tunisia nell’abitazione di Sakhr el Materi, genero del deposto dittatore Zine El-Abidine Ben Alì, la scultura non ha ancora fatto ritorno nel luogo di origine.

Fin dal 1972, l’Algeria ha ratificato la Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale adottata dall’Unesco ma l’incoerenza nell’applicazione del codice non si manifesta soltanto a svantaggio delle città romane. Nel Sahara occidentale, le pitture e incisioni rupestri del Tassili n’Ajjer risalenti al neolitico stanno scomparendo per la mancanza di protezione dagli agenti atmosferici e dai crimini di devastazione volontaria, mentre a Nord i caratteristici mausolei numidi di Imedghassen, La Chretienne e Siga subiscono l’onta dell’abbandono.

Se in questi ultimi casi è evidente il disprezzo dello stato algerino per le culture tuareg e berbera considerate estranee alla «purezza» araba, nella Casbah di Algeri – luogo simbolo della battaglia per l’indipendenza – ben cinquecentocinquantaquattro edifici versano in stato di degrado avanzato e centottant’otto sono in condizioni di estrema precarietà. Sempre nella capitale, la costruzione di una fermata della metropolitana nella Place des Martyres ha compromesso lo studio e la conservazione delle già labili tracce dell’antica Icosium, abbattuta dai conquistatori ottomani e poi francesi. Esclusa dalle recenti rivoluzioni arabe, l’Algeria ha mancato la sua primavera. I risultati delle presidenziali del 17 aprile, con la rielezione-farsa di Abdelaziz Bouteflika – al potere dal 1999 e assente dalla scena pubblica dal 2012 a causa di una malattia – hanno inferto l’ennesimo colpo alla speranza di una svolta democratica.

Il forte astensionismo e le violente contestazioni scoppiate in occasione del voto nella regione della Kabylia gettano nuove ombre sull’avvenire. Anche per questo la tutela del patrimonio dovrebbe essere affidata, ancor prima che a leggi efficaci, a un revisionismo delle radici. Una liberazione compiuta, che renda gli algerini depositari coscienti e responsabili del proprio passato.