Un mantra con cui politici ed economisti si sciacquano continuamente la bocca è quello delle riforme, quelle che «famiglie e imprese ci chiedono» e che «ci faranno crescere», come veniamo ammoniti ogni sera da esponenti di destra come di sinistra, ora capeggiati da Renzi.

A tal proposito Maurizio Zenezini dell’Università di Trieste – un valoroso economista vicino alla tradizione della gloriosa facoltà di Economia di Modena nata sull’intreccio di Sraffa-Keynes e lotte operaie – ha curato un prezioso numero di Economia e società regionale (13/2 2013), una rivista legata all’Ires-Cgil veneta, dedicato a «Le riforme e l’illusione della crescita». Quello che opportunamente Zenezini denomina «riformismo competitivo», per distinguerlo dal ben diverso riformismo socialista, altro non appare come una copertura allo svuotamento di una vera azione di politica economica, questo dovuto sia dal ritorno dell’egemonia di teorie solo momentaneamente scalzate dalla rivoluzione keynesiana, che dallo spostamento delle decisioni presso gli organismi europei. Risulta così svuotato ogni esercizio democratico nazionale nelle scelte di politica economica: «Bloccata, date le caratteristiche del palinsesto della politica economica europea, ogni possibilità di significativo impiego della politica macroeconomica a sostegno della crescita e della domanda, la crescita viene consegnata alle politiche dell’offerta la cui efficacia è affidata al funzionamento flessibile dei mercati» (p.5). Il «patto faustiano» proposto ai lavoratori è fra «sacrificio dei diritti e l’impoverimento della democrazia in cambio della crescita» (p.6).

Ma è poi vero che il «riformismo competitivo» porta a maggiore crescita? Gli studi presentati nel volume sembrano documentare una risposta in larga misura negativa. Così Elena Podrecca nei riguardi delle riforme nel mercato dei beni, Laura Chies nei confronti delle riforme del lavoro tedesche, Visentin e Gentile su quelle spagnole. Nel proprio saggio Zenezini esamina con certosina meticolosità le valutazioni quantitative sui risultati attesi dalle riforme presentati nei documenti del governo italiano (i Piani Nazionali di Riforma allegati al Def) e dagli organismi internazionali ricavandone un quadro desolato di stime che dicono tutto e il suo opposto. I modelli impiegati sono, ça va sans dire, di stampo neoclassico «in cui vengono inseriti rigidità e frizioni» la cui rimozione in seguito alle riforme dovrebbe sortire magici effetti di crescita. Come al solito il modello racconta quello che gli si è insegnato – per cui pluralismo e onestà intellettuale vorrebbero che il ministero dell’Economia impiegasse una pluralità di modelli, per esempio anche keynesiani. E come sempre le risultanze quantitative sono così sensibili ai valori assegnati ai parametri che «ci troviamo di fronte ad esercizi largamente arbitrari che richiedono una certa dose di fede e devono fare affidamento sulla credulità degli interlocutori» (p. 100).

L’obiettivo ultimo dell’agitazione riformista nei riguardi del mercato del lavoro, neppure tanto simulato, è quello di ridurre il potere contrattuale dei lavoratori con l’obiettivo della riduzione di salari reali (p.101). Il paradosso è che molti risultati anche ufficiali mostrano come le riforme abbiano ostacolato la crescita, deprimendo per esempio l’aumento della produttività del lavoro. Peraltro le medesime fonti ufficiali ammettono che l’Italia già si trova prossima alle «migliori pratiche» (cioè a una piena liberalizzazione) ma ciò nonostante gli effetti di tali riforme sono «relativamente piccoli» (p. 106). Ciò nondimeno si continua ad agitare la necessità di «ulteriori riforme» per aumentare la flessibilità.

Le riforme del mercato dei beni e servizi sono il cuore ideologico del «riformismo competitivo» in quanto pongono al centro il benessere del consumatore e non più quello dei lavoratori e delle loro famiglie. Nei fatti, argomenta Zenezini, «le riforme del mercato dei beni e dei servizi sono sempre state, almeno in parte, riforme del mercato del lavoro en travesti (le privatizzazioni come mezzi per ridurre alla ragione i sindacati delle imprese pubbliche, le liberalizzazioni degli orari nei negozi come occasione di contratti flessibili dei commessi)» (p. 107). Da dubitare che i salari reali si avvantaggino di prezzi più bassi in seguito alla maggiore concorrenza sicché «l’argomento che le persone possono essere protette come consumatori dopo essere state punite come lavoratori non è molto di più di un’offa propagandistica» (ibid.).

Impietoso è il giudizio di Zenezini sulle riforme volte a ridurre il carico burocratico sulle imprese da cui, nei documenti dei governi italiani, ci si ripromettono mirabolanti effetti di crescita definiti «scrosci di cifre quasi senza senso» (p. 109). «Surreali» sono certe stime dell’Ocse per cui gli effetti dei vari pacchetti di riforme adottate nel 2010-12 varierebbero fra 0% e 11% del Pil, che è come dire «non li conosciamo»; ma invece di stare zitta l’Ocse ricorre a ragionamenti «metafisici» sostenendo che senza le riforme sarebbe comunque andata peggio.

Sarebbe naturalmente sbagliato che la sinistra si presentasse solo con dei dinieghi come se tutto in Italia andasse bene. Ma più che di riforme il paese sembrerebbe aver bisogno di competenza e spirito civico a ogni livello, pubblico e privato, e anche di flessibilità positiva, quella che non smantella i diritti ma piuttosto colpisce privilegiati e imboscati. Ma questo non ha nulla a che vedere con il vacuo chiacchiericcio «riformista» di politici incompetenti e in malafede che solo copre lo svuotamento della democrazia economica nel nostro paese sacrificata, in particolare, sull’altare di un’Europa matrigna del «riformismo competitivo». C’è chi crede che quest’Europa sia riformabile in una direzione diversa. Com’è noto noi ne dubitiamo assai.

Una versione più ampia del saggio di Zenezini è disponibile qui in pdf