La memoria, si sa, è tema delicato, permeabile a diverse interpretazioni – spesso anche in contraddizione – ma giocoforza centrale in diverse questioni, dove le scienze si incontrano e le esperienze si sommano. A questo proposito, sembra quindi essere utile provare a circoscriverne in modo drastico ma rigoroso il raggio d’azione, a partire dall’occasione qui data: come si articola il rapporto tra memoria e immagine oggi? A dare forma a tale questione, possono sicuramente essere d’aiuto la scienze umane più avanzate in merito, per esempio nella ricerca di un Carlo Severi («il concetto di memoria va dunque inteso qui in senso pieno, come craft of thought, contesto dell’inferenza, schema persistente della rievocazione; e dunque, dell’ideazione, dell’immaginazione poetica. E, infine, della credenza»). Ma è poi ovviamente alla risposta alla domanda – o alle sue possibili risposte – che si deve porre attenzione. E fra queste, giocoforza, c’è anche quella data da certa arte, da quegli artisti e filmmaker contemporanei da anni a lavoro sul tema.

Ora, come possibile e valida testimonianza al riguardo, si può considerare una recente pubblicazione di DeriveApprodi, un libro davvero notevole dal titolo Politiche della memoria (sottotitolo: documentario e archivio). Di cosa si tratta? Si legge: «questa pubblicazione raccoglie un ciclo di conferenze tenute in NABA Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, tra il 2009 e il 2013, da artisti e filmmaker attivi sulla scena internazionale ed è frutto di un progetto pluriennale di ricerca, promosso dal Dipartimento di Arti Visive e in particolare dal Biennio specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali, volto a sollecitare un confronto tra le esperienze artistiche internazionali che hanno interrogato le forme del documentario e dell’archivio, a partire dal tema della memoria, intesa come esercizio critico e pratica di resistenza.» I curatori del volume in questione sono Elisabetta Galasso – direttrice di Open Care (società di servizi per l’arte), socia fondatrice di DeriveApprodi, direttrice dal 2004 al 2012 di NABA – e Marco Scotini – critico d’arte, curatore indipendente, direttore del Dipartimento di Arti Visive presso la NABA. La prima firma la prefazione, il secondo un saggio introduttivo.

Ora, chi sono gli artisti e filmmaker dell’antologia? Si tratta di figure senza dubbio di rilievo e per diversi motivi, i cui interventi – nel volume – sono suddivisi in tre parti, ognuna in relazione a quello che si direbbe un “terreno” specifico – e qui non si può che usare tale termine, terreno, data la natura antropologica, se non addirittura etnografica, di quanto indicato – a cui associare o dentro cui collocare il tema della memoria nella sua accezione politica-culturale, come memoria sociale. Nell’ordine: l’archivio; il conflitto; la migrazione.

In “memoria e archivio” sono riuniti i testi di John Akomfrah, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Deimantas Narkevičius e Gintaras Makarevičius. Quello di Akomfrah ha come titolo “Memorie e morfologie della differenza”. Si tratta di una riflessione molto ricca, molto bella, dove l’autore – figlio di attivisti politici ghanesi, di origini africane, di base a Londra, noto soprattutto per il suo lavoro con un gruppo cinematografico londinese, il Black Audio Film Collective(1982-1997) – offre una della risposte più interessanti al perché lavorare con gli archivi audiovisivi: «si tratta fondamentalmente di questo: lungi dall’allontanarci dalla questione dell’azione, dell’autonomia e dell’autorialità, l’archivio ci riconduce alla domanda sull’auto-rappresentazione.» In “Secolo cane-lupo”, Gianikian e Ricci Lucchi invece focalizzano l’attenzione sulla complessa temporalità da loro resa alle immagini del loro cinema found footage, materiali tanto appartenenti a determinati archivi – e quindi a determinate storiografie – quanto elaborati in modo da farne risaltare una attualità profonda. Dalle parole di Ricci Lucchi: «sappiamo che le etichette sono necessarie per poter definire il nostro lavoro, ma noi le rifiutiamo, soprattutto quella di «archivisti» perché lavoriamo per il presente, vogliamo che il presente sia in dialettica con il passato. Usiamo il passato per parlare dell’oggi.» Completano poi questa parte del libro due ulteriori testi, “Into the Unknown” di Narkevičius e “La lingua del passato” di Makarevičius, ambedue lituani.

In “memoria e conflitto” è raccolto un numero maggiore di testi rispetto alle altre parti del libro prese singolarmente. Qui i nomi chiamati in causa sono quelli di Eyal Sivan, Lamia Joreige, Mohanad Yaqubi e Reem Shilleh, Khaled Jarrar, Hito Steyerl, Florian Schneider, Clemens von Wedemeyer, Eric Baudelaire, Wendelien van Oldenborgh. I loro sono tutti contributi interessanti, tali da fornire un panorama assai variegato, perché potenzialmente in grado di spaziare dalla riflessione giocoforza più visibilmente politica (diciamo da Sivan a Jarrar) a ciò che si potrebbe dire una attenzione rivolta – invece – a certe variazioni sul tema più teoriche (diciamo da Steyerl a van Oldenborgh). Ciò detto, per ambo gli aspetti si può prendere un esempio. Nel primo caso, l’intervento del cineasta israeliano Sivan. Dal titolo “Quando la memoria è al servizio della violenza politica”, si tratta di un intervento molto denso in cui l’autore, parlando del suo lavoro, pone l’attenzione sul triangolo trauma-ricordo-violenza in rapporto al piano collettivo su cui agisce la memoria, e dunque – in questo caso – alla costruzione dell’identità nazionale israeliana. Nel secondo caso, l’intervento della regista, autrice e docente tedesca Hito Steyerl. Dal titolo “In difesa dell’immagine povera”, si tratta di un intervento che articola/sposta il rapporto tra memoria e conflitto nell’ambito della circolazione contemporanea dell’immagine cosiddetta “povera”, in relazione alle sue condizioni reali di esistenza, alla sua materialità.

In “memoria e migrazione” sono riuniti i testi di Trinh T. Minh-ha, Ursula Biemann, Angela Melitopoulos, Lisl Ponger e Jean-Marie Teno. E, fra questi, sono assolutamente da menzionare quelli di Trinh T. Minh-ha e di Lisl Ponger, nel caso si volesse sempre individuare un esempio più teorico e uno più “intimo” in merito al tema. Il primo ha per titolo “Don’t Stop in the Dark”. Qui l’autrice espone nozioni in grado di valere tanto per la propria opera quanto per un discorso più generale: su tutto, forse, l’idea di ritmo, aspetto in grado di restituire bene, nella prassi, questioni proprie della migrazione e intrinseche alla memoria sociale. Il secondo ha per titolo “Imago Mundi”. È un intervento molto bello, preciso, prezioso, in cui l’autrice offre l’esempio concreto della propria ricerca fotografica per soffermarsi sul funzionamento degli stereotipi visivi nella costruzione identitaria (individuale, etnica) tramite le immagini.

Finita la lettura del libro, come considerazione complessiva – fra le molteplici che si possono e si devono fare (gli stimoli non mancano di certo) – si potrebbe, in fondo, azzardare una formula alternativa capace di andar bene per tutto quello che si è letto: arte della memoria. Se si vuole, un rimando alla celebre arte della memoria investigata e ricostruita dalla studiosa inglese Frances Yates, nella misura in cui questa contemporanea – come quella passata – guarderebbe alla memoria in termini comunque di creazione, attraverso la funzione rivelatrice e determinante dell’immagine. Un filosofo italiano – scomparso da diversi anni, sempre troppo poco ricordato da noi – ha ribadito più volte come la nostra conoscenza sia soltanto memoria, ma come noi viviamo – inconsapevoli – nell’immediato. Se l’arte allora è – antropologicamente – “critica alla cultura”, arte della memoria non vorrebbe dire altro che critica della conoscenza, atteggiamento intellettuale indispensabile per ogni comprensione dialettica dell’esistenza. Questo libro ce lo ricorda.