Lasciamo da parte le «provocazioni» che con Lars von Trier sono talmente prevedibili da suonare scontate come un copione da fiction tv (italiana). Perciò nessuna sorpresa per la t-shirt con su «Persona non grata» sotto alla palmetta simbolo del festival di Cannes, in memoria della cacciata, ai tempi di Melancholia dalla Croisette dopo le «sparate» su Hitler e gli ebrei – uscita quella davvero infelice, che i francesi, prima innamorati del regista danese non hanno mai davvero digerito. Non tutti, ovvio, tanto che Cahiers du Cine’ma mettono questo film tra i loro «capolavori» del mese.

Così i malumori di Shia LaBeouf che citando Eric Cantona alla conferenza stampa dopo la proiezione berlinese, fuori concorso, – «Quando i gabbiani seguono un peschereccio sono convinti di trovare delle sardine» – se ne è andato anche lui forse ancora irritato dalle polemiche con l’accusa di plagio che hanno sommerso il suo cortometraggio da regista. E lasciamo anche da parte la lunga scia di maliziosi ammiccamenti che ha preceduto in sala l’uscita di Nymph(o)maniac – in Italia sarà distribuito da Good Films – montata a arte da un’astuta politica di marketing.

Film femminista o misogino? si interroga sulle colonne de Les Inrockuptibles il critico e amico Serge Kaganski. Nessuno dei due verrebbe da dire, anche se la misoginia più del femminismo è inscritta profondamente nell’universo di von Trier. O meglio più che di misoginia si può parlare di un perverso piacere del martirio del femminile, condannato dalla comunità a atroci tormenti, alla follia o al massacro in nome di un qualche sacrificio sociale personale amoroso. Era il motivo che rendeva odioso Le onde del destino e pure l’escursione medievale di Antichrist sempre in complicità come in Nimph(o)maniac con Charlotte Gainsbourg, dove la follia della protagonista , che dal contemporaneo si immerge nella violenza del medioevo, quando per eliminare le donne le si accusava di essere streghe, elabora una vendetta contro il maschile che nasce comunque da una colpa. Sessuale evidentemente, perché il figlietto si è buttato dalla finestra mentre lei sta facendo sesso.

Nelle Onde del destino avevamo invece il riscatto del marito malato, che la protagonista ottiene attraverso la devastazione sessuale (fino alla morte) di se stessa. L’equazione sesso/colpa/redenzione/morte finisce sempre contro la donna, e riuscire a vedervi un rovescio in questi film è impossibile nonostante la evidente distanza dal maschio del regista che mette sempre le donne al centro dei suoi film . L’inizio di Nymph(o)maniac che già dal titolo gioca con una delle sue metafore predilette, la pesca, come migliore amica dell’uomo ma anche come paradigma «semplice» della sessualità (il protagonista ci dirà lungamente della pesca a ninfa, indicate sui manuali come molto efficace e difficile, che fa leva sulla certezza che i pesci (i maschi?) passano– il loro tempo a nutrirsi), ci fa vagare in un vicolo stretto e piovoso. La macchina da presa con virtuosismo contenuto si muove tra i mattoni, e scopre il corpo di una donna svenuta (Charlotte Gainsbsourg). Intanto in casa un uomo (Stellan Skarsgard) scende a comprare latte e dolci per la colazione. Solo, con una sportina, che sembra uscito da un film di Kaurismaki. La vede, la solleva, la porta a casa. Le offre un letto pulito, un pigiama, il the caldo che aveva chiesto. E comincia ad ascoltare la sua storia. Nymphomaniac volume 1, in attesa del volume 2, è un lungo flashback, punteggiato da continui ritorni al presente, a quella stanzetta con la luce fioca, in cui Joe (Gainsbourg), ripercorre per Seligman (Skarsgard) la sua adolescenza. I ricordi vengono interrotti da riflessioni e considerazioni su quanto lei sta raccontando. L’uomo è il suo specchio ma anche colui che oppone un ragionamento «culturale» all’ossessione della donna di presentarsi come una peccatrice a ogni costo.

Eccoci dunque all’infanzia, quando Joe, bambina innamorata del padre (Christian Slater) che detesta naturalmente la madre (un tipo da fredda puttana), scopre che il suo «Vaso di Pandora» ha una sensibilità elevata. Le piace toccarsi, e con l’amica B. riempiono d’acqua il pavimento del bagno per poi farsi scivolare senza mutande sopra e provare quel piacere, «la sensazione» la chiamano, ineffabile che arriva dallo sfregare col sesso il pavimento.

Il padre le spiega la vita degli alberi, e delle foglie, a forma di sesso femminile, e intanto la ragazzina si toglie il pensiero della verginità con un meccanico dalle belle mani. La penetrerà 2 volte davanti, e tre dietro (l’ossessione numerica tra Bach e il diavolo percorre il film) per poi scappare in sella alla sua moto che non parte (ma era chiusa la benzina). Del resto uomo e motore come propellente erettile è anch’essa metafora sin troppo consumata. La ragazza, che è Stacy Martin, ha le treccine e i calzettoni traforati, e un paio di mutande delle medie, quelle alte coi fiorellini che oggi nessuna ragazzina porta più. Da manuale della Lolita insomma. E viene un dubbio: è lei che si pensa o è lui che la proietta in questo modo?

Con le amiche B.in testa mettono su la chiesa della Vulva – preghiera: «Mea Vulva mea vulva me grandissima Vulva» – e si ribellano all’idea dell’amore, quella roba melensa da torte rosa confetto e baci rubati al cinema. Per loro è solo sesso. Cob B. Joe si sfidano – il premio è un sacchetto di smarties, la vecchia versione degli m&m – a chi si scopa più uomini nella toilette del treno, Joe vince conquistando con un pompino anche il riluttante passeggero di prima classe che teneva da parte lo sperma per l’ovulazione della moglie non più giovanissima (c’era qualcosa di simile in Erica Jong Paura di volare). La smonta l’ascoltatore in questa sua «colpa»: «Lo sperma più si usa meglio funziona, ora magari avranno un figlio grazie a te». Poi accade che anche B. si innamora e tradisce la promessa di non scopare mai più di una volta con lo stesso ragazzo… Al più la madeleine (proustiana) di Joe sarà cioccolata e sperma …

La storia va avanti, seguiamo Joe nel suo apprendistato, in questa scoperta dolorosa e accumulatrice del sesso e delle sue variazioni.

Non siamo però in un vero e proprio romanzo di formazione, non almeno in questo volume 1, che più di un’esplorazione dell’erotismo e delle sue variazioni possibili, appare come una catalogazione dei topici del sesso. Porno, forse, ma nemmeno fino in fondo. Il dialogo a due appare più come una sorta di seduta psicanalitica, in cui da una parte e dall’altra c’è sempre il regista, Lars von Trier. Il quale sembra mettere a confronto il suo universo filmico, e le sue donne martoriate e «peccatrici», con una demistificazione dello stesso. È sicuramente più semplice vederlo in Seligman, ebreo ma non praticante, seppure con un sentimentalismo verso l’ebraismo che lo spinge a acquistare i dolci klezmer. Lui si è allontanato perché antisionista che non vuol dire essere antisemiti, puntualizzazione rivolta in modo esplicito a quella polemica a Cannes di due anni fa. L’uomo cita Bach, oltre alla pesca, scoperta da bambino su un libro. I flashback talvolta ci riportano in bianco e nero a lui, e altre volte le sue parole si mischiano a immagini di repertorio di pesca, appunto, per lo più. La scelta stilistica di von Trier è morbida, la macchina da presa ha abbandonato da tempo i movimenti del Dogma.

Il sesso sono primi piani di genitali come da manuale, e la catalogazione dei peni fatta da Joe, ma in questo primo volume siamo sempre dalle parti di una sessualità d’accumulazione con poco piacere, e anche poca fantasia nelle posizioni sciorinate.

Infine più che un film sul sesso, Nymphomaniac appare come una affabulazione narrativa attraverso il sesso, nel corso della quale il regista cerca la corrispondenza tra parola e immagine forzandone i limiti dentro lo stereotipo. Comune e popolare, mischiato al pensiero di una filosofia che oscilla intorno al concetto di peccato con umorismo e autoironia. Joe si rappresenta come una grande peccatrice, il suo ascoltatore la smonta.

Il maschile, appunto, è anche qui opaco e strumentale. Se non patetico come l’amante che si presenta con le valigie a casa di Joe pronto a trasferirsi (ma chi lo vuole?) seguito dalla moglie (Uma Thurman meravigliosa) chef a una scenata da tragedia greca… Gli uomini anche quando amati, sono sempre proiezioni di lei, di questa sua lunga confessione.

Ma è proprio questa dualità che rende possibile il gioco, per uno dei film meno dogmatici, e più «liberi» del regista (qualcuno ha citato Sedl o addirittura Dreyer ma siamo lontanissimi dall’uno e dall’altro). È come se entrambi i personaggi cogliessero l’occasione di stare lì per ripercorrere il suo cinema, e le sue ossessioni, mostrandone il funzionamento e anche i limiti. Ma anche, e forse soprattutto, la possibilità di narrare il sesso e la sessualità, e di rendere immagine il desiderio. Cosa difficilissima che porta con sè anche nelle esplicitazioni più nette la delusione. Un po’ come il virtuale e il reale, ma questa sarebbe un’altra storia.