No, non è nello show la rivoluzione copernicana operata da Amadeus. L’interminabile maratona a cui lo spettatore viene costretto a districarsi tra telepromozioni (ma c’è da capire, sui disastrati bilanci di viale Mazzini gli introiti pubblicitari degli inserzionisti sanremesi suonano un po’ come una boccata d’ossigeno…), spottoni per «la fiction che verrà» e siparietti di saltimbanchi vari, fanno parte di un immaginario televisivo a cui siamo abituati. Scomparsa nei tempi che furono la tradizione del sabato sera, anche i varietà – di cui Sanremo è principe assoluto – si sono abituati, o per meglio dire omologati, a un guazzabuglio inestricabile che tiene insieme le tante anime della tv generalista: il dolore, la commozione, il caso umano, la finta indignazione e lo schierarsi ‘politicamente corretto’ che poi tanto corretto non è. La sindrome da ‘telemeloni’ non è ostentata, è strisciante e più pericolosa perché ricompone la settimana del festival dove sembra tutto accada, ma nulla succede realmente. È la pax sanremese.

NO, NON È QUESTA la rivoluzione di Amadeus messa a punto nel corso del suo quinquennio di direzione artistica – che lui giuria e spergiura essersi concluso ieri sera – è piuttosto la mutazione epocale nella liturgia musicale del festival, modificando il dna della kermesse per portarla nel mondo reale del pop italiano, per meglio dire globale. E questo è chiaro non significa automaticamente qualità, e ha in parte ragione Gino Paoli nel definire la musica ascoltata sul palco dell’Ariston – per usare un eufemismo – ‘merce di scarso valore’. È ormai chiaro come il festival – accusato da sempre di non rappresentare il contemporaneo musicale pop, ne sia ora il ritratto fedele. Pop che prova ad aprirsi verso l’urban, ovvero quell’insieme di stili che tiene insieme trap, rap melodia e suggestioni mediorientali a cui tanto contribuisce il gusto degli italiani di seconda generazione.C’erano tanti mondi in quella performance. Le persone non vanno fischiate, non ha fatto che il suo mestiere. Va rispettato il pensiero di chi lo vota. Amadeus

Come Ghali e il suo racconto tra barre, flow e autotune della periferia milanese, che campiona Cutugno e si definisce orgogliosamente – alla faccia di Salvini – ‘italiano vero. O Mahmood in una versione più sofisticata e a tratti sperimentale, come ha dimostrato in Tuta gold e ancor più nella rilettura di Com’è il profondo il mare – un classico di Dalla – con i Tenores di Bitti, forse il momento più alto dell’intera manifestazione. Un itinerario che può tenere insieme anche una tradizione melodica diversa (Angelina Mango) e il pop di matrice soul (Rosie Villain, Big Mama). Restano ai margini la scena più underground e il rock, quasi ormai relegato a una narrazione boomer.

MENZIONE a parte merita il successo di Geolier che gioca spudoratamente con trap, rap, neomelodico e la grande tradizione napoletana. Una mescolanza di stili che si è esaltata nella giornata delle cover attraverso la convivenza con un arrangiamento superbo dove a campionamenti di star americane (Nas, Usher) alternava inserimenti orchestrali e citazioni da colonne sonore. Nella serata di venerdì ha vinto superando la favorita, Angelina Mango, facendo infuriare il pubblico dell’Ariston che lo ha fischiato sonoramente abbandonando la platea e costringendo lui e i suoi ‘ospiti’ nel bis concesso al vincitore, ad esibirsi di fronte a una sala semivuota. Maleducazione – a cui peraltro siamo abituati dai tempi delle liti furiose scatenate dai fan di Claudio Villa. Perché i fan di Geolier si estendono geograficamente da sud a nord – a Milano e a Firenze gli stream dei suoi brani sono addirittura il doppio di Napoli – un mondo sonoro a cui i paludati spettatori accomodati sulle poltroncine dell’Ariston, dovranno prima o poi abituarsi.