Siamo qui all’Hôtel Eden, è il 10 marzo, una giornata di sole che rende più bella questa parte di Roma. Oggi pomeriggio sarà consegnato a Peter Eisenman il premio Piranesi, promosso dalla Accademia Adrianea, che si occupa del rapporto tra architettura e archeologia in tutte le sue espressioni. Prima di questa cerimonia converso con lui su alcuni temi che ritengo importanti. Partirò proprio da Roma, perché nella sua storia recente la città ha dimostrato di avere un problema forse irrisolto, vale a dire quello di pensarsi nella modernità. Chiedo dunque a Eisenman, dal momento che conosce bene Roma, come potrebbe secondo lui diventare pienamente moderna nel rispetto della sua tradizione.

PETER EISENMAN Penso ci siano due idee prevalenti su Roma: la prima riguarda il suo essere per definizione la «città eterna», in cui le rovine costituiscono luoghi archeologici di grande importanza. L’altra è l’idea di Sigmun Freud, che ritengo molto più valida, e cioè quella per cui Roma è una traccia della storia del pensiero e dei luoghi, una traccia che è non solo nei resti archeologici ma anche nei manufatti del XVIII, del XIX, del XX secolo. Per me questa stratificazione di memorie e di fatti sempre compresenti fa di Roma più di un semplice museo: potrebbe essere solo un repertorio di chiese, di palazzi, di edifici religiosi, ma per me è la città dei grandi dipinti, delle grandi architetture, anche del XX secolo. La salvaguardia dei centri storici va ripensata: tutte le grandi città come Londra, Parigi, Berlino, devono senz’altro mantenere le testimonianze della loro storia e della loro cultura. Nello stesso tempo, però, queste stesse città hanno costruito edifici alti. Credo che l’idea che qui non si possa costruire nulla che sia più alto della Cupola di San Pietro sia del tutto superata. È necessario infatti costruire la città di oggi. Penso ad Atene, per esempio, che ha una sua regola per cui non si possono costruire edifici che superino il Partenone. Ciò mi ha convinto che non è una città attuale. Costruire oggi a Roma è importante proprio per la sua storia, e pensare solo in riferimento al passato è un errore. Per questo mi piacciono città come Milano e Berlino. Preferisco le città che non hanno paura di rischiare e dove si costruiscono edifici alti, una operazione che mi sembra importante.

F. P. Vorrei a questo punto farti una domanda di carattere biografico: che ricordo hai del tuo viaggio con Colin Rowe a Roma?

EISENMAN La mia prima visita a Roma fu dovuta al fatto che era propedeutica alla comprensione dell’arte in altre città come Bologna e Firenze. Prima di scoprire il Bronzino, i Carracci, il Parmigianino e Guido Reni dovevo venire qui. L’arte è nata a Roma, per questo Colin Rowe mi fece visitare Firenze e Bologna solo dopo aver conosciuto questa città. Questo è il primo punto. La seconda cosa è che quando venni a Roma per la prima volta non mi fu permesso di vedere Borromini e Bernini perché il loro mondo era il Barocco, legato alla Chiesa. Per Colin Rowe, che era anglicano e non cattolico, era una architettura corrotta, a servizio di una idea culturale che era religiosa. Così non mi fece cercare Bernini, Borromini, Pietro da Cortona. Vidi però Santa Maria in Campitelli, perché era una chiesa non del tutto barocca, e resta uno dei miei edifici preferiti. È infatti un misto incredibile di Palladio e di Borromini. Prima vidi il Gesù di Vignola, e poi vidi Santa Maria in Campitelli ma non San Carlino, non le opere di Bernini. Fui portato a visitare la chiesa a Piazza del Popolo, ma non quella di Bernini, a sinistra, quella di Carlo Rainaldi, a destra, Santa Maria dei Miracoli. È stato un grande insegnamento quello di Rowe, che mi ha trasmesso cosa l’architettura può essere e come distinguere un edifico dall’altro.

F. P. Della Roma moderna e in genere della architettura moderna italiana cosa ti interessa, a parte Terragni?

EISENMAN Prima di tutto ci sono tre città del XX secolo. Una è Milano, una è Napoli, una è Roma. A Milano abbiamo gli edifici residenziali di Giuseppe Terragni e le opere di Luigi Moretti del dopoguerra, come l’edificio in Corso Italia e le Case albergo. Per me, a Roma, l’Accademia della Scherma al Foro Italico, la Casa del Girasole a Viale Bruno Buozzi e la Palazzina Astrea a Via Jenner sempre di Moretti, che per inciso aveva fondato «Spazio», una straordinaria rivista, sono edifici fantastici. A Napoli vorrei ricordare il Palazzo delle Poste di Giuseppe Vaccaro. Oltre queste architetture potrei citarne molte altre, che rappresentano esemplarmente lo spirito del movimento architettonico del XX secolo. Il più importante tra la prima guerra mondiale e la seconda, quando l’Italia era ancora un paese dedito all’agricoltura, spinto verso la modernità dal governo fascista che migliorò il sistema ferroviario, fondò molte città nuove e inventò l’intero sistema delle comunicazioni. Secondo me l’architettura di quel periodo non è paragonabile a quella, meno significativa, di altri paesi. L’Italia tra il 1929 e il 1942 è incredibile, e l’Eur è uno degli esempi migliori di quella stagione.

F. P. Molti anni fa, nel 1989 se non sbaglio, ho scritto un testo in cui definivo la Palazzina Astrea di Moretti come un’antesignana della decostruzione, perché presenta un’immagine della tettonica come un ordinamento al limite del suo collasso. In effetti questa palazzina mette in scena una suggestiva e potente «rovina in progress». Ma adesso vorrei conoscere la tua opinione sulla architettura contemporanea nelle città globali, che piace molto al vasto pubblico ma che spesso noi architetti valutiamo in altri termini molto più critici.

EISENMAN I miei studenti sono un buon esempio dell’esistenza di questo problema: consumano i media e i media sono diventati uno dei problemi dell’architettura. Ogni giorno le riviste negli Stati Uniti pubblicano progetti nuovi sui siti web e nuove architetture vengono realizzate. Così abbiamo un nuovo edificio di Jean Nouvel, un nuovo edificio di Zaha Hadid, un nuovo edificio di Rem Koolhaas. I media hanno distrutto la possibilità di fare una riflessione critica sull’architettura. Inoltre, i miei studenti non riescono a costruire un’idea architettonica. Se dico loro: «prendete Villa Savoye di Le Corbusier e disegnatene in trenta secondi l’idea», loro si mettono al computer; allora io dico: «no, prendete una penna e disegnate». Ma non sanno farlo, non possono disegnare un’idea perché non sanno pensare senza l’aiuto del computer. Credo che dobbiamo tornare indietro ritrovando il disegno, dobbiamo tornare all’idea di che cosa è il progetto d’architettura come fenomeno critico, sociale, ideologico. Non c’è ideologia negli edifici a Doha o di Abu Dhabi.

F. P. Quando parli dell’alleanza tra computer e media metti in evidenza come questa verifichi una sorta di perversa convergenza che elimina dall’architettura il ruolo politico che essa non dovrebbe mai perdere. Questo non vuol dire che bisogna discutere ogni giorno ciò che sta succedendo, ma orientare la ricerca verso una trasformazione della società che migliori la capacità degli individui di essere più liberi, di comprendere meglio quello che avviene nel paese e fuori, di plasmare autonomamente il proprio futuro potendo avere accesso alle opportunità sempre crescenti che il nostro tempo ci offre. Penso sarebbe necessario che gli architetti si rimpossessassero di questa coscienza. Lo dice molto spesso anche Vittorio Gregotti quando parla di «distanza critica». Tu cosa ne pensi?

EISENMAN Da quel che dici dobbiamo dedurre che la tua è una critica della figurazione. Sappiamo che l’architettura ha una sua narratività, in altre parole è un tentativo di rendere la figura, che si sia colorata o senza colore. Ciò che avviene nell’architettura moderna ha a che fare con l’astrazione contro la figurazione, perché la figurazione ha perso criticità, ma noi non possiamo oggi tornare meccanicamente all’astrazione, non possiamo tornare direttamente al collage, perché si tratta di procedure di formalizzazione che non hanno più energia. Dobbiamo allora capire come sia possibile rendere necessaria una nuova complessità della figurazione che sia capace di farla diventare veicolo critico, direi anche ideologico, perché politico implica qualcosa di diverso. Penso che la dimensione ideologica sia qualcosa che concerne il modo di guardare il mondo attraverso l’esercizio critico possibile nella disciplina dell’architettura. Ciò che mi piace nel tuo lavoro è la presenza di antecedenti, ovvero di una temporalità storica. Tu e io siamo due autori, con punti di vista diversi ma entrambi con una presenza e un controllo autoriale. Se si passa al computer e ai media si perde l’autore e questo è uno degli aspetti più negativi dell’architettura contemporanea.

F. P. A me pare che la tua architettura sia oggi nel mondo la più difficile a essere compresa. Per questo richiede a chi la abita, a chi la vede ma anche a chi la conosce solo attraverso le riviste, un grande sforzo creativo: perché bisogna riconoscere come architettura qualcosa che apparentemente nega di esserlo o lo nasconde. Questa contraddizione è a mio avviso fondamentale, poiché indica nella necessità di una interpretazione creativa la strada che l’architettura può ritrovare nel sottrarsi a ogni convenzione.

EISENMAN Per poter capire la mia architettura è necessario un closereading, una lettura attenta. Walter Benjamin diceva che l’architettura viene sempre letta in uno stato di distrazione. La gente camminando si guarda semplicemente intorno, mentre per me la critica in architettura è importante se è in grado di fermare il flusso di informazioni e di narrazioni, se è in grado di bloccare la comprensione: pretendendo di capire tutto ciò che ci è dato non capiamo nulla. Mi piace ancora leggere Finnegans Wake, mi piace ancora leggere Umberto Eco, mi piace ancora leggere opere contemporanee perché non è facile. La letteratura non sparirà, la musica ci sarà sempre, l’arte non avrà mai fine. Se per l’architettura rimarrà la possibilità di una «lettura attenta» essa non scomparirà. E questo comporta la necessità di comprendere la componente ideologica, come è stato fatto in Germania, in Russia, Italia negli anni trenta.

F. P. Quindi si potrebbe dire, con Mario Perniola, che la tua architettura è «contro la comunicazione» e lo è nel momento stesso in cui apre un nuovo territorio più avanzato alla comunicazione stessa, che deve intrecciarsi con questioni fondamentali come le scelte ideologiche dell’architetto, a loro volta significative della valenza politica della sua architettura.

EISENMAN A Istanbul, dal momento che le elezioni sono imminenti, stiamo realizzando un progetto politico, così come in Spagna abbiamo realizzato un progetto molto critico perché ideologico. È difficile per il mio cliente guardare il progetto e capire qual è l’intento politico che lo aiuterà a essere eletto. Lavoro per clienti che vogliono una soluzione politica ma vogliono anche qualcosa di semplice. Io rispondo che la soluzione politica deve sempre essere difficile, e loro mi rispondono: «va bene, ma la soluzione difficile non mi farà prendere voti, e a me servono voti». Oggi non ci sono soldi pubblici per edifici rappresentativi e dunque sono i costruttori edili, il settore privato, che realizza musei o edifici pubblici per le città. Hanno preso il sopravvento nella maggior parte delle città degli Stati Uniti e non hanno bisogno della politica. Sono loro gli unici responsabili della banalizzazione dell’architettura. Dobbiamo cambiare la tendenza generalizzata a rifiutare la complessità ideologica. Questo è il punto. Come possiamo cambiare o come pensiamo di relazionarci ai nuovi clienti, in questa dimensione privata? Io non ho ancora una risposta.

F. P. Ti domandavo prima cos’è per te il vedere perché per molti architetti contemporanei vedere e comprendere sono atti simultanei. Invece nel tuo modo di concepire l’architettura noto una sorta di «sguardo differito»: si prende coscienza di una situazione, di una città, di un tracciato urbano, delle architetture che ci sono ma nello stesso tempo si produce uno scarto, come se la visione simultanea fosse ingannevole. Deve quindi intervenire un piano successivo di interpretazione. Questo scarto è un differenziale qualitativo più poetico che intellettuale. La mia impressione ha per te un suo fondamento?

EISENMAN Come ti dicevo prima, la società dell’arte oggi vuole una gratificazione immediata da ciò che vede: non c’è tempo per pensare, i media propongono sempre qualcosa di nuovo. Io credo che la tua e la mia carriera sarebbero più importanti fra cinquant’anni, perché i progetti di Franco Purini e quelli di Peter Eisenman non sono intonati alla cultura visiva oggi prevalente. Ieri sera sentivo dire al ristorante: «ah, che bar cool»! E cosa sarebbe un bar cool? Qualcosa che ha a che vedere con le persone che lo frequentano, con la musica. Invece per noi un bar cool è un luogo fantastico, misterioso, con un’architettura importante.

F. P. In un passo della tua risposta hai evocato la dimensione della teoria. Ecco, cosa pensi della teoria oggi? È necessaria?

EISENMAN Oggi non c’è teoria, perché gli studenti non la ritengono necessaria. Si crede che rallenti il mondo mentre in questo momento si pretende che esso vada sempre più veloce. Non serve sapere il motivo delle scelte, perché richiederebbe tempo. Chiedo ai miei studenti il perché e mi rispondono: «perché si può. Se lo posso fare lo voglio fare, non mi serve essere un critico d’architettura».

F. P. Secondo te l’annullamento del tempo e dello spazio da parte del digitale è accettabile?

EISENMAN Il computer cerca di rendere ogni frattura una possibilità. Tenterò di spiegare questo concetto citando Leon Battista Alberti, che ha inventato l’idea di spazio, ed è stato il primo a dire che questo qualcosa in cui siamo nella città e negli edifici si chiama spazio. Il tipo di spazio che ha inventato è chiamato «spazio omogeneo», uno spazio continuo e conseguente. Ogni architetto dopo Alberti –, Bramante come Peruzzi, o come Giulio Romano, Vignola, Carlo Rainaldi – tutti hanno cercato di rompere lo spazio omogeneo. Così, la storia dell’architettura è il racconto di come, volta per volta, si siano prodotte successive rotture dell’innovazione albertiana dello spazio omogeneo. È stata l’uccisione del padre. Ora, il computer ha distrutto la lezione di Alberti. Oggi è necessario pensare: «va bene, cosa possiamo fare di questo spazio?» La distruzione dello spazio – pensiamo alla Palazzina Astrea di Luigi Moretti per esempio – la sua discontinuità, la sua frammentazione sono importantissime.

F. P. In questo contesto di trasformazioni, di certezze e di dubbi volevo farti una domanda un po’ particolare. Che fine fa il corpo dell’uomo, il corpo dell’essere umano dentro un’architettura in cui la categoria dello spazio omogeneo è confusa?

EISENMAN Non credo che le necessità umane siano cambiate. Io non penso mai solo al «corpo», ma anche alla mente. Per esempio del nostro progetto di Berlino – il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, comunemente detto Memoriale della Shoah – non devi capirne solo il significato e la narratività. Mentre cammini nello spazio il tuo corpo sente qualcosa, senti quello che io chiamo un coinvolgimento empatico, qualcosa di «affettivo», che non riguarda solo la mente. Questo per me è molto importante. Nei media invece non abbiamo alcun «affetto», abbiamo solo virtualità. Paradossalmente, però, proprio perché l’architettura può fornire quella realtà tridimensionale che i media non possono ottenere, quel che si è prodotto è un ritorno alla necessità dell’affetto. Il progetto che ho realizzato a Berlino per me è il più significativo perché lì ho lasciato il mondo del virtuale, del non essere: in quella città è molto importante sentire il cemento, il suo peso, il colore del materiale, la sua temperatura. Vedo la stessa cosa nelle opere di Richard Serra. La fisicità è diventata più importante in reazione alla virtualità dei media.

F. P. Sono contento di questa tua riaffermazione del valore che assume la corporeità dell’architettura contro ogni seduzione virtuale. Possiamo concludere così: in queste strade, qui attorno a via Veneto, si aggirava sessant’anni fa Kunt, il personaggio di una famosa commedia di Ennio Flaiano, uno scrittore che è stato anche sceneggiatore di Fellini. Nella commedia si immaginava che l’extraterrestre fosse arrivato a Roma. All’inizio tutti lo cercavano, ma dal momento che i romani sono molto indifferenti e amano solo le novità, dopo una settimana non lo voleva frequentare più nessuno. Kunt si aggirava qui vicino triste e abbandonato. Se venisse di nuovo qui, o ti chiedesse da Marte che cosa è oggi l’architettura per Roma, cosa risponderesti in una battuta?

EISENMAN Se mi chiedi cosa vuol dire lavorare qui, piuttosto che a Milano, «in Roma per sé», direi che prima di tutto a Roma c’è una differenza qualitativa dei materiali, una sensibilità diversa. Negli Stati Uniti, forse non ce ne rendiamo abbastanza conto, non abbiamo archi e questo mi suggerisce una sfida alla quale non possiamo sottrarci quando guardiamo il panorama romano fatto di cupole. La cosa importante è come si passa dal quadrato alla cupola, vale a dire come si risolve il rapporto tra il quadrato strutturale inferiore dei pilastri o delle colonne e il tamburo di imposta della cupola. Il «pennacchio» è quell’importante elemento architettonico che permette tale transizione strutturale e formale. Non è quindi tanto importante la «cupola» stessa, o il quadrato dalla quale essa nasce, ma lo spazio tra il quadrato e la cupola, in cui avviene una vera e propria «trasmutazione geometrica». Come questo si possa realizzare oggi, ovviamente in modi molto diversi è per me di grande interesse.

(traduzione di Monica Manicone)