Dall’inizio alla fine, dagli omicidi dei dirigenti delle leghe contadine negli anni Venti sino alla complicità con le stragi naziste, il fascismo è stato violenza. Violenza fredda e calcolata indirizzata a un fine politico preciso. Il fascismo è stato violenza di classe. Il primo intervento parlamentare contro questo stato di cose Giacomo Matteotti lo pronunciò il 31 gennaio del 1921. Il gruppo socialista alla Camera dei deputati gli diede l’incarico di denunciare l’attività delle squadre mussoliniane e Matteotti, con implacabile precisione, tracciò un lungo, agghiacciante bilancio di aggressioni, di pestaggi, di devastazioni di case e poderi, di omicidi. Tutto compiuto con l’acquiescenza, quando non con la complicità, delle autorità statali, prefetti e forze di polizia. Matteotti, però, non si limitò, nel suo discorso, al registro dei fatti. Indicò il fine, l’obiettivo dei pestaggi e degli omicidi.
«La verità – disse rivolto ai banchi della destra – è che codesta violenza è esercitata da voi per interesse di classe. Il fascismo è una reazione contro le conquiste economiche del proletariato».

È SOPRATTUTTO perché dice questo che è utile Io vi accuso. Giacomo Matteotti e noi, il libro che Concetto Vecchio, giornalista di Repubblica, ha appena pubblicato con Utet (pp. 230, euro 19). Sul piano storiografico è infatti il segno politico complessivo della denuncia di Matteotti – il suo richiamare la valenza di classe non soltanto dello squadrismo ma di tutto il movimento fascista – che spiega come da Mussolini il deputato di Fratta del Polesine sia stato considerato da subito come un nemico mortale.
Sul piano invece del dibattito politico di queste settimane, guardando cioè a quel «Giacomo Matteotti e noi» che Concetto Vecchio mette nel sottotiolo del suo lavoro, la verità denunciata con lucida coscienza dal dirigente socialista in Parlamento ci ricorda che se per un certo antifascismo di marca liberaldemocratica il regime mussoliniano è stato libertà soppresse e subalternità al progetto egemonico sull’Europa del nazismo, per l’antifascismo al quale si rifaceva Matteotti il Duce è stato soprattutto il capo di una violenta reazione di massa contro il movimento operaio e socialista internazionale. Di antifascismo non ce n’è stato uno solo.

IL SECONDO MOTIVO per cui il libro di Concetto Vecchio è utile è che mostra come la violenza fascista abbia penetrato gli aspetti più riposti della vita nazionale, come sia entrata nelle case, come abbia toccato e sconvolto il vissuto quotidiano delle singole persone. A cominciare da Giacomo Matteotti e dalla sua famiglia: la moglie Velia, i figli Giancarlo, Matteo e Isabella. Esistenze drammaticamente segnate non soltanto dal brutale assassinio compiuto dai sicari agli ordini di Mussolini a Roma quasi cento anni fa, il 24 giugno del 1924, ma anche da ciò che è venuto dopo: la salma di Matteotti nascosta, i controlli costanti e invadenti della polizia su tutti i familiari, i traffici più spregevoli per mantenere Velia lontana dai rifugiati antifascisti all’estero, per sterilizzarla politicamente e per piegare la sua volontà. Sino alla toccante testimonianza di Laura, nipote di Matteotti, figlia di Matteo.
Laura vive a Milano, ha 68 anni e fa la fotografa. Soltanto quando, molto malato, stava per morire il padre ha trovato l’animo di parlarle del nonno trucidato dai fascisti. Prima, impenetrabile silenzio: un trauma durato una vita intera. Velia morì giovane. «I figli – dice Laura – rimasero soli. Immensamente soli».
La solitudine delle vittime. Terribile, inaccettabile. Atto d’accusa che resta vivo.