Alla manifestazione «Lampedusa ad Amburgo», il 2 novembre scorso, c’erano oltre 10 mila persone, a dimostrare come la questione dei diritti fondamentali violati sia in grado di mobilitare ampi settori della società civile. Un’altra grande manifestazione è programmata ad Amburgo ai primi di marzo 2014.

La storia del gruppo «Lampedusa ad Amburgo» è solo il pezzo più recente dell’Emergenza Nord Africa. All’inizio della primavera 2013, essa si è materializzata a migliaia di chilometri da Lampedusa e dall’Italia: qui, nella metropoli portuale di Amburgo, città tra le più grandi del Nord Europa, che con l’hinterland arriva a 5 milioni di abitanti, quanto l’intera popolazione della vicina Danimarca. Ad Amburgo gli africani dell’Emergenza sono circa 350, a testimonianza dei percorsi di vita negata di migliaia di uomini e donne arrivati in Italia durante la guerra in Libia nel 2011. Da oltre tre anni vivono in prima persona le conseguenze di politiche migratorie e di asilo nazionali ed europee basate su controllo, marginalizzazione e rifiuto.

Storie di vita negate che si somigliano, come quella di Amadou, originario di Bamako, e portavoce del gruppo francofono che incontriamo nella Chiesa del quartiere St. Pauli. Nove mesi al centro Sant’Anna di Crotone e un mese da senzatetto a Roma prima di arrivare qui. Parliamo mentre intorno finiscono colazione e fanno le pulizie nella Chiesa di St. Pauli, che fino ad un mese fa ospitava oltre 80 rifugiati.

La municipalità di Amburgo ha inizialmente offerto loro un breve servizio temporaneo di accoglienza invernale, chiuso già all’inizio di maggio, quando le temperature qui nel nord Europa vanno ancora sottozero. È stato uno dei primi tentativi della municipalità, a guida socialdemocratica, di allontanare i rifugiati «volontariamente», negando servizi di accoglienza di base e richiamandosi alle regole di Dublino: i rifugiati devono rientrare in Italia, loro primo paese d’ingresso, che deve occuparsi dell’asilo. La risposta è stata un’azione di protesta organizzata davanti al Municipio, dove è comparso lo striscione «Non siamo sopravvissuti alla guerra della Nato in Libia per venire a morire sulle strade di Amburgo».

La mancanza di ascolto ha contribuito alla nascita del gruppo «Lampedusa ad Amburgo», che nel tempo si è fatto compatto, organizzato e lucido nella rivendicazione dei propri diritti. Come altri movimenti di migranti, il gruppo chiede accoglienza, diritto alla casa, al lavoro, la possibilità di entrare a far parte integrante della società locale. Scrive uno dei portavoce, Asuquo Udo, in una lettera aperta ai cittadini di Amburgo: «Vogliamo diventare parte della società di Amburgo, non possiamo e non vogliamo tornare alla miseria, né in Italia, né nei paesi africani». Molti dei rifugiati dell’Emergenza prima di lasciare la Libia lavoravano come operai edili, carpentieri, meccanici, giornalisti, esperti informatici. Sono qui per vivere, lavorare, inserirsi nella società.
Ralf Lourenco, attivista del movimento Karawane, nella sede di St. Pauli spiega: «Quando i rifugiati si sono rivolti a noi erano già organizzati e avevano quattro portavoce. (…) Li abbiamo aiutati a rendere pubbliche le loro rivendicazioni, organizzando dimostrazioni, incontri pubblici e con la stampa, aiutandoli nelle traduzioni in tedesco.

Ma i contenuti erano già chiari in partenza». A differenza di altre realtà che si occupano di diritti di rifugiati e migranti, il gruppo di Karawane incoraggia e sostiene forme di self-empowerment ed auto-organizzazione dei migranti e rifugiati. Perché non sono «vittime da aiutare», ma soggetti autonomi, pensanti, in grado di auto-rappresentarsi, formulare e reclamare i propri diritti. Il supporto di Karawane si traduce spesso in forme di sostegno pratiche, ma non ci sono intermediari. Sono i rifugiati che vanno agli incontri con le autorità, la stampa, i sindacati, gli studenti, i movimenti di cittadini. Questo è uno dei punti di forza di Lampedusa ad Amburgo, che è innanzitutto un movimento dei migranti, rispetto ad altre realtà spesso «per i migranti».

Un esempio: il primo maggio 2013 il gruppo di Karawane e una cinquantina di africani di quella che ormai è la «Lampedusa ad Amburgo» vanno tutti al Kirchentag, il convegno internazionale delle chiese protestanti. Tremila tra fedeli, rappresentanti della comunità protestante, intellettuali, politici. Si discute anche di diritti degli immigrati e di accoglienza. I rifugiati replicano: «Wir sind her!» («Siamo qui!). Un’azione che ottiene un risultato: il vescovo protestante della città, Kirsten Ferhs, deve riconosce che serve fare qualcosa. In seguito, la chiesa di St. Pauli apre le porte a più di 80 rifugiati e altri luoghi di culto seguono l’iniziativa: dalla moschea a St Georg alla chiesa Erlöserkirche. A questa forma di accoglienza se ne aggiungono altre, presso associazioni e privati, soprattutto e non a caso nel quartiere di St. Pauli.

La rivendicazioni politiche di «Lampedusa ad Amburgo» fanno anche appello al §23 della legge di soggiorno tedesca, in cui lo stato federale decide, in accordo con il ministero degli Interni. Il paragrafo agevola istanze di residenza nel caso specifico di gruppi omogenei e numerosi, come nel caso di Lampedusa ad Amburgo. Il Senato federale di Amburgo replica con la proposta di accettare la pratica, che in tedesco si chiama Duldung, per cui la domanda di asilo viene fatta su base esclusivamente individuale. Ciò comporterebbe per i rifugiati la perdita di tutto l’iter precedente, incluso il riconoscimento di asilo già avvenuto in Italia, dopo attese lunghissime. Il rifiuto della domanda di asilo, inoltre, avvierebbe automaticamente procedure di detenzione nei centri di espulsione della Germania e deportazione. In sostanza, nessun riconoscimento collettivo al gruppo, ma solo una scelta su base individuale. Più che una soluzione, i portavoce di «Lampedusa ad Amburgo» la interpretano come un nuovo tentativo di dividere il gruppo, diluirne le rivendicazioni collettive, l’organizzazione e compattezza. La proposta del Senato è considerata inaccettabile dalla maggioranza del gruppo, che ha replicato con una lettera aperta .

Su questo punto si sono create alcune difficoltà tra le molte e diverse realtà impegnate nella difesa dei diritti di «Lampedusa ad Amburgo». Secondo Ralf, «la chiesa si preoccupa principalmente dell’aspetto umanitario della questione, concentrandosi sui casi individuali. Per la chiesa la soluzione di gruppo non è possibile. La chiesa di St. Pauli vuol essere de-politicizzata, e questo influisce negativamente sul gruppo, che ha avuto alcune esperienze negative con rappresentati della comunità della Chiesa coinvolti in negoziati politici senza il sostegno collegiale della Lampedusa».

La chiesa è un fattore importante nel mobilitare la comunità protestante, ma indubbiamente le relazioni si complicano quando dalla questione prevalentemente umanitaria e legata al singolo si passa a dover prendere posizioni politiche, che comportano inevitabilmente una critica dei poteri costituiti e delle norme vigenti. Qui il ruolo della Chiesa è indebolito anche dalle pressioni fatte dalle autorità locali. All’incontro settimanale degli attivisti nella chiesa di St Pauli, Philippe sostiene si tratta anche una questione pragmatica: «Una cosa è intervenire quando la situazione fa vedere che certe politiche non funzionano, un’altra pretendere di voler cambiare radicalmente le politiche di asilo e immigrazione». Per Philippe «l’atto umanitario è anch’esso un atto politico», ma riconosce che esistono vincoli e limiti dettati dal ruolo e dalla natura stessa dei rapporti della Chiesa con le istituzioni, si pensi all’aspetto economico.Tuttavia,seduti tra gli attivisti è difficile non notare che nessun portavoce di «Lampedusa ad Amburgo» è tra noi durante la riunione. Alcuni ascoltano seduti in disparte, altri dalla navata superiore, ma nessuno traduce e pochi di loro parlano già il tedesco.

Al di là dei problemi, il diffuso sostegno della comunità ai rifugiati e il continuo moltiplicarsi ed esprimersi di iniziative di solidarietà rimangono i fattori positivi. «Una solidarietà così forte non ce l’aspettavamo» affermano a Karawane, e questa è tra le ragioni dei risultati fino ad ora ottenuti, anche rispetto ad altri movimenti. A questo hanno anche contribuito la popolare squadra di calcio del St. Pauli, il centro sociale Rote Flora sgomberato con la forza dalla polizia nei giorni scorsi, gli studenti delle scuole locali e dell’Università, il teatro, sindacati come Ver.di e IG Metall. Camminando per St Pauli, ovunque ci sono manifesti col motto «We are here to stay», graffiti, banners alle finestre, scritte ai muri e marciapiedi, depliants nei bar e nei negozi di quartiere. Gli africani ad Amburgo sono i primi a riconoscerlo, ricambiando.Perché «Wir sind mehr/ Siamo di più». Una solidarietà che la «zona ad alto pericolo» (gefahrengebiet) dichiarata dalla polizia a St. Pauli e in aree adiacenti a seguito della manifestazione del 21 dicembre contro la chiusura del centro sociale Rote Flora non possono circoscrivere.

Queste anche le ragioni di speranza. «Rimaniamo fiduciosi», afferma Ralf, «e continueremo a lottare per ottenere una soluzione che riconosca i diritti del gruppo di Lampedusa». Perché la lotta a fianco di «Lampedusa ad Amburgo» è in realtà un modo per discutere e riflettere più in generale sulle attuali questioni in materia di asilo, immigrazione ed accoglienza, a livello nazionale ed europeo. «Lampedusa ad Amburgo» è un esempio in grado di influenzarne positivamente altri, di moltiplicarsi. Molti stanno guardando a quello che sta succedendo qui ad Amburgo, perché qui c’è stata e continua ad esserci una risposta concreta da parte della comunità alle vuote promesse fatte dai politici sull’isola di Lampedusa.