Balbo t’è pasè l’Atlantic mo miga la Pärma: capita ancora di leggerlo a Parma e dintorni su magliette, striscioni, manifesti o muri a rinnovare il racconto delle barricate dell’agosto 1922, quando fu respinto l’attacco dei fascisti comandati da Italo Balbo, decisi a mettere a ferro e a fuoco l’antico e popolare quartiere di Oltretorrente. Probabilmente, questa frase è di origine più recente. Di fatto, rappresenta bene la permanenza del mito della città ribelle e barricadera, di una «identità popolare» radicata nella gloriosa storia di un quartiere scenario di una peculiare stratificazione sociale, nonché luogo di partenza per proteste, tumulti e rivolte che dal «ventre» dell’antica capitale del Ducato miravano a raggiungere i palazzi del potere, o a difendersi dai gendarmi dello Stato unitario.
La storia delle barricate del 1922 è stata studiata minuziosamente. Eppure, l’eccezionalità di quei fatti va spiegata anche alla luce del contesto geografico e sociale di Parma e dei suoi quartieri, delle trasformazioni delle forme e dei linguaggi della protesta tra Ottocento e Novecento, come mostra l’impegnativo lavoro di Margherita Becchetti, Fuochi oltre il ponte. Rivolte e conflitti sociali a Parma (1868-1915), appena pubblicato da DeriveApprodi (pp. 292, euro 20).

Dai «moti del macinato» degli anni ’60 alla «Settimana rossa» del 1914, in questa storia emerge protagonista l’Oltretorrente. Da lì partivano i tumulti contro le guerre coloniali in Africa o la svolta reazionaria di fine secolo; lì uomini e donne, ragazzi scalzi, vecchie con gli zoccoli innervavano le rivolte «per il pane e il lavoro», in un rapporto con le autorità che tanto ricorda l’economia morale descritta da E.P. Thompson, tornata al centro di dibattiti storiografici (il prossimo numero della European Review of History sarà proprio su questo).

Le classi pericolose

Leggendo i primi capitoli del volume, che si apre con un’analisi minuziosa di fonti di archivio indispensabili per disegnare i profili di classi, ceti, forme di socialità e culture, tratti urbanistici e vita quotidiana, si capiscono le ragioni della reiterata vocazione ribellistica della città «di là dall’acqua», divisa da quella di «lor signori», più che da un torrente, dalle terribili condizioni sanitarie, dalla mancanza di fognature e strade, da tuguri brulicanti di un’umanità condannata a tassi di mortalità d’antico regime ancora durante la belle époque. Due città che si fronteggiavano e si temevano da sempre: quella borghese, aristocratica ed elegante, e quella che non aveva nulla da perdere, dei «vandali», degli «zulù» che, scriveva la Gazzetta di Parma, dai rifugi di «Makallè» davano l’assalto ai simboli e ai luoghi del potere.

Questa irriducibilità dell’Oltretorrente viene spiegata e complicata, letta attraverso l’inafferrabile ricchezza delle vite individuali e familiari. Emerge il quadro di un ambiente sociale da cui scaturiscono pulsioni sovversive che nel corso dei cinque decenni considerati finiscono per interagire anche con la storia nazionale e internazionale, entrando in risonanza con lo strutturarsi del movimento operaio, dei primi partiti e l’emergere del sindacalismo rivoluzionario, con la crisi di fine secolo, con l’imperialismo «straccione» delle conquiste d’Oltremare e l’antimilitarismo, con il sogno della guerra rivoluzionaria.

Sulla scorta di una storiografia che, dalla storia sociale inglese agli studi francesi sul pouvoir de la rue, ha messo in discussione modelli riguardanti i repertori della protesta, il volume esamina il costituirsi e l’evolversi di una vocazione alla rivolta, alla sovversione che caratterizzava un quartiere popolato da operai e operaie «dai mille mestieri», da marginali e «classi pericolose». Dialogando fittamente con ricerche che hanno rinnovato la storia del mob e dei food riots, si mettono in luce continuità e trasformazioni, consapevolezze e fini dell’azione sovversiva che mutarono sensibilmente tra l’Unità e la Grande guerra: talvolta in modo paradossale e rapidissimo.
Le rivolte seguivano percorsi che si ripetevano. La propensione insurrezionale poteva slanciarsi dal cuore dell’Oltretorrente verso l’«altra città», prima di ritirarsi oltre il ponte quando «sbirraglia» ed esercito riprendevano il controllo degli spazi pubblici, per poi inseguire gli insorti nei vicoli sotto una pioggia di tegole e oggetti vari (mobili quasi mai, ché nei tuguri scarseggiavano): in quelle strade fin da ragazzi ci si allenava alla guerriglia, qui lo scontro con l’autorità sembrava un rito di passaggio per «farsi uomo».

Propensione alla guerriglia, modo di combatterla e determinazione a sfidare fino alle estreme conseguenze l’autorità si inserivano in modo costante nelle forme della protesta, assumendo però significati diversi nel corso del tempo, in una «relazione continua, difficile e certamente instabile tra la turbolenza delle classi popolari e le culture politiche» che si contendevano «un ruolo di guida sulla via della loro emancipazione».

L’immagine statica dei «sovversivi per natura» si arricchisce e si complica con l’analisi dei passaggi che portarono i livelli di consapevolezza politica ad ampliarsi, da motivazioni che avevano origine e fine dentro l’Oltretorrente e nel suo rapporto con l’«altra» Parma, a motivazioni che attenevano alla guerra, all’imperialismo e all’antimilitarismo, agli ideali repubblicani e sindacalisti rivoluzionari, anarchici e socialisti. In questo fluire di culture politiche, emerge trasversalmente la multiforme fruibilità del garibaldinismo, il suo tenere insieme tradizione rivoluzionaria, voglia di menar le mani, attivismo irrequieto e utopia di riscatto sociale.

Nel complesso rapporto tra piccola patria e grande storia, vengono alla ribalta organizzatori e militanti, uomini politici e sindacalisti capaci di usare questo enorme serbatoio di volontà di lotta inscrivendolo (a fatica, e mai completamente) in strategie politiche di più ampio respiro. Attraverso questi decisivi cambiamenti l’essere «contro» trovò nuovi sbocchi dall’Oltretorrente all’Internazionale.

L’autonomia dallo Stato

Il conflitto mondiale spaccò tutto. L’Oltretorrente seguì sindacalisti e socialisti rivoluzionari; si schierò per l’intervento, con De Ambris e Mussolini contro Serrati; dagli scontri contro la «sbirraglia» in nome del più acceso antimilitarismo internazionalista, si passò alle violenze verso gli oppositori della guerra. Alla fine della lettura, viene insomma da ripensare alla vicenda per la quale Parma è entrata nel mito, alle barricate, al Balbo che passò «l’Atlantico ma non la Parma».

Prima ancora di una cultura antifascista, viene sbalzata una cultura dell’autonomia dallo Stato. Se il fascismo si pone e si autorappresenta come restauratore dell’Autorità messa in crisi dalla sovversione rossa, i fatti del 1922 si pongono in sintonia con l’operare dell’Oltretorrente nei cinquant’anni precedenti, nella collaudata esperienza di guerriglia urbana. L’eccezionalità delle barricate, dunque, trova in questo volume una spiegazione che ne limita la straordinarietà: che resta tale per l’Italia del tempo, ma che per l’Oltretorrente sembra assumere i contorni dell’ennesima, e comunque peculiare, tappa in una storia di lungo periodo.